“Per la Rai questo è il momento del coraggio”. Firmato Salini

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“Per la Rai questo è il momento del coraggio” scrive – al Corriere della Sera – il direttore della Rai medesima per chiedere l’appoggio dei dipendenti al suo Piano Industriale. Del quale però non esplicita i dettagli, che sono l’unica cosa che conta in un Piano, specie se “industriale”.

Sicché a noi non resta che immaginare che il suddetto Piano sia oggetto di uno scontro radicale fra l’amministratore Salini e la maggioranza del Consiglio di Amministrazione, che per vocazione, da quando la elegge il Parlamento, è formata da garanti dell’immobilismo, per conto di qualche boss in fase di spolvero, di qualche corporazione o di un misto di entrambi. Il tutto, ovviamente, in nome del “pluralismo”, nella versione “giù le mani dai miei giocattoli”.

In sostanza, saremmo pronti a scommettere che perfino gli alfieri del sovranismo più dichiarato siano pronti, una volta divenuti sovrani della Rai a convertirsi in normali re travicello. E così del resto che da trentacinque anni perdura, si approfondisce e si allarga la logica corporativo e spartitoria della organizzazione dalle mille testate. Una proiezioni dei partiti negli anni’70, quando tanto per dire – ancora non c’era la tv a colori. Una “riforma” che oggi appare – al confronto con qualsiasi azienda televisiva al mondo, come una mera, ma ahimè costosissima residualità corporativa, l’equivalente per la Rai dell’handicap che il Debito Pubblico costituisce per l’economia del Paese nel suo complesso.

E questo alla fine del secondo decennio del XXI secolo, in mezzo al turbine delle piattaforme (terra e satellite) e delle offerte (dalla free alla pay) per non parlare della Rete che, quando negli anni ’70 la Rai fu Ri/Deformata (temiamo per sempre) doveva ancora nascere e ancora nessuno poteva immaginare l’irreversibile misto di orrore e meraviglia dei social network o social trappole che li si voglia considerare.
Precorse esperienze (Iseppi, Masi e altri Carneade che al momento non ci sovvengono) ci hanno mostrato che quando il “capo” dell’azienda giunge a scolpire le proprie ferme volontà sul Corriere o su Repubblica con tanto di fotografia nel corpo dell’intervista o missiva, questo è il segno che è arrivato, come s’usa dire, alla frutta (o nei rapporti con la politica, o nei confronti dei Consiglieri, oppure di entrambi).

Ed ora siamo, come è facile immaginare, curiosissimi di verificare se l’appassionata epistola di Salini rientri in questo solco già tracciato, oppure se stavolta siano proprio noi a non voler capire che tutto è cambiato, anzi, che il cambiamento è – come ci pare di aver sentito affermare – in corso.

Stefano Balassone