Tutta in salita la corsa di Zingaretti alla segreteria del Pd

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La notizia non notizia è che il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti si candida alla segreteria del Pd che verrà suffragata dall’adunata del 13 ottobre alla Dogana Vecchia di Roma, che già sembra uno spazio insufficiente per una iniziativa di questa importanza.

In fondo, ricordiamo, c’erano migliaia di persone a Trastevere in piazza San Cosimato nel luglio del 2012, quando sembrava che Zingaretti si candidasse a sindaco di Roma dopo la disastrosa esperienza di Gianni Alemanno che apriva praterie di consensi per la rimonta del Pd al Campidoglio.

Poi lui optò per la Regione anche grazie ai buoni uffici di Goffredo Bettini e ai tentennamenti dell’ex presidente della Provincia Gasbarra che voleva a tutti costi il suo seggio in parlamento. Goffredo allora contava parecchio in un partito strutturato e presente in tutti i gangli del potere capitolino che lui per decenni (o quasi) aveva governato con il bastone e la carota.

Passata la mano in Regione, Nicola batte di larga misura Francesco Storace, destra estrema, ma erede della disastrosa situazione lasciata dalle dimissioni di Renata Polverini, schifata dall’abuso di soldi del gruppo del Pdl alla Pisana, ma anche abbastanza paracula da capire che il vento politico stava cambiando. Una volta eletto Nicola con scrupolo comincia a fare il suo mestiere di governatore. 

Ma nel frattempo nel Pd s’avvera il miracolo di Renzi che con le primarie dll’8 dicembre 2013 si prende il partito contro Gianni Cuperlo che arriva sì e no al 19% con Beppe Civati al 14%.

Non è un mistero che allora Bersani e D’Alema abbiano fatto pressioni su Zingaretti perché si candidasse al posto di Cuperlo per la minoranza interna al Pd, bene o male un 40% dei consensi l’avrebbe pure ottenuto, ma anche il Governatore, come d’altronde Goffredo Bettini, si allinea alle speranze sul nuovo astro nascente di Matteo “il rottamatore”.

Renzi non è uno che scherza e si mangia tutto il partito nonostante segnali grossi di cedimento avvengano alle amministrative, ben prima del fatale referendum del 4 dicembre 2016.

Occhi chiusi e tutti dietro al capo che tuttavia non risultò simpatico ad oltre il 60% degli italiani al referendum.

Nel frattempo Zingaretti si tiene alla larga dal cataclisma prodotto da “mafia capitale” che praticamente azzera una intera classe dirigente del Pd e porta al dimissionamento di Ignazio Marino che tentava in qualche modo di distinguersi dal partito che lo aveva fatto eleggere. 

L’opera di risanamento del Pd romano viene affidata a Matteo Orfini, ex pupillo di D’Alema poi ‘giovane turco’ con una sua corrente, ma di fatto braccio armato di Renzi e non solo a Roma, il quale con la dimessa candidatura di Giachetti, riesce ad arrivare al ballottaggio perso alla grande con Virginia Raggi.

Nicola nel frattempo, si tiene a distanza dalle faide interne al Pd, quanto meno ci prova, sapendo che l’avversario Orfini, presidente dell’assemblea nazionale del Pd, è forte tanto da portare alle elezioni politiche suoi candidati di fiducia come ad esempio Patrizia Prestipino e Luciano Nobili che hanno come unico loro merito di essere suoi fedelissimi.

Dopo mille esitazioni, perché un seggio al senato gli avrebbe fatto pur comodo dopo 5 anni di governo del Lazio, Zingaretti si ricandida e vince di misura contro il centro destra diviso e inconcludente di Parisi. Insomma quel vecchio Pdl più che altro voglioso di poltrone e incarichi spartitori che non aveva ancora subito lo tzumani Salvini.

Però la maggioranza alla Pisana non c’è e, grazie al fedele presidente dell’assemblea  Leodori e soprattutto al lavoro politico del vice presidente Smeriglio, si inventa un patto d’aula che gli assicura il voto dei due consiglieri del gruppo misto e lascia ampi spazi ad accordi con i 5stelle di Roberta Lombardi che è tutto fuorchè sdraiata sulla linea dell’effimero vice presidente del Consiglio di Maio. Senza parlare delle sue antiche ruggini con la Raggi.

Bocce ferme quindi e Nicola può partire alla scalata della segreteria del Pd senza il timore di imboscate alla Pisana dove vigila politicamente il suo vice Massimiliano Smeriglio che ha percorso quasi tutti i marciapiedi a sinistra del Pd, da Vendola a Pisapia, fino alla decisione di farsi na’ cosa tutto da solo con una sua etichetta.

Ora Nicola balla con i lupi perché il compagno Orfini lo vede come fumo negli occhi mentre i renziani restano in attesa delle decisione del Vate Renzi sul nome che dovrà concorrere alla corsa della segreteria e magari fregare il governatore del Lazio.

Certo, Zingaretti ha già in tasca il consenso dell’area di Franceschini, oltre a quella della sinistra di Orlando che lui ha sostenuto alle primarie del maggio dallo scorso. Il sostegno di Gentiloni non gli manca e forse nemmeno quello dell’ex ministro dell’interno Minniti, per non parlare di Veltroni che rispunta dalle pagine dell’house organ Repubblica e spiega come recuperare il popolo della sinistra.

Sta di fatto che, nonostante il consenso del sindaco di Milano Sala e di quello di Bologna Merola, il nostro Zingaretti si dovrà battere tutto lo Stivale per cercare consensi almeno sino a quando verrà decisa la data del congresso. Oggetto misterioso, questo del congresso, nei pensieri dei dirigenti del Pd, con il segretario Martina insieme a Zingaretti e tutti i nemici Renzi, auspica prima delle elezioni europee ma sulla data pare che i renziani facciano melina, almeno sino a quando non avranno chiarito i loro giochi per la segreteria del partito.

Sotto il profilo politico, le novità politiche di Zingaretti riguardano una apertura ai 5 Stelle che Renzi ha segato senza indugio sin dall’inizio della crisi di governo, e la ri-costruzione dell’unità di tutte le forze politiche e sociali che ancora si identificano con la sinistra, come avvenuto nel Lazio.

Questo per semplificare, una cosa è certa, Zinga ormai non può tornare indietro e nonostante tutte le cautele, le sue tattiche di politico navigato e, perché no, tutte le sue furbizie, questa volta ci ha messo la faccia.

Se consentite vorrei finire con una nota di colore. Pare che nel Lazio, almeno per ora, tutto il dibattito politico del Pd, riportato da ininfluenti giornali locali, riguardi lo scontro titanico per la segreteria regionale fra il pluripreferenziato senatore Bruno Astore e l’autorevole ciociaro Francesco De Angelis. 

Esempio di una nomenclatura del Pd fatta di poltrone, amministratori ed eletti che è la vera struttura portante di questo partito a livello nazionale. Insomma i cosiddetti re di tessere e preferenze. 

Ebbene, evocare il popolo della sinistra fatto di superstiti militanti, associazionismo, sindacati ecc. è molto suggestivo ma è anche con questi boiardi a livello nazione che controllano il partito, che Zingaretti dovrà giocarsi la partita. Già vinta nel Lazio, dove molti si sono affrettati a imbarcarsi sul carro del presidente, ma altrove?

Giuliano Longo

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