Ci sono settori del Pd, ora alle prese con divisioni apparentemente insanabili e la minaccia di scissione che viene da D’Alema, che guardano con interesse alle posizioni di Nicola Zingaretti che, nella travagliata vicenda dei Democratici, ha sempre avuto una posizione di mediazione. Ancora oggi, a margine di una visita al centro distribuzione di Amazon di Passo Corese, il Presidente della Regione Lazio ha chiarito la sua posizione sul congresso recentemente ribadita anche da Matteo Orfini. «Renzi il congresso lo voleva fare dal giorno dopo la sconfitta del referendum – ha detto – poi gli hanno detto di no perché sarebbe stato un colpo di mano, mentre ora c’è un dibattito sul perché non convoca il congresso».
Nella sostanza Zingaretti evoca la ricostruzione «di un soggetto popolare radicato in modo nuovo e moderno» che dia «forza e identità unitaria rispetto ad una percezione per cui oggi sembra che questa unità sia messa in discussione da pezzetti convinti più delle proprie idee e che non dialoghino più». Critica palese ai progetti di scissione e che apre alla sinistra del Pd ripescando la proposta ante-referendum di Pisapia oggi in sostanziale stand by. Infatti il governatore del Lazio trova il progetto dell’ex sindaco di Milano «molto positivo e incoraggiante» perché l’idea di tornare ad unire una parte della sinistra (alla sinistra del Pd, ndr) che «sui propri contenuti, fa una scelta di Governo e collaborazione» aiuterà, quale che sia la legge elettorale «il rafforzamento di campo delle forze del centrosinistra, che è fondamentale soprattutto per le amministrative». Da un punto di vista tattico significa che la formazione di una ‘sinistra sinistra’ dialogante con un Pd di governo potrebbe esorcizzare, di fatto, i propositi scissionisti.
Per chiarire meglio la posizione di Zingaretti, va ricordato il commento che rilasciò all’Huffington Post a dicembre dopo la sconfitta referendaria. Allora scrisse che non andavano ignorati «errori e sottovalutazioni» e criticava un confronto interno al partito dove i “leader” e i capi corrente: intervengono il più delle volte «attraverso dei twitter e comunicati stampa, raramente in un rapporto diretto con le persone; oppure si alimentano i gossip giornalistici, elevati a commento e analisi politica». Poi indicava le cause della sconfitta nella sottovalutazione delle disuguaglianze sociali e nell’isolamento nel quale il Pd si era venuto a trovare auspicando «un campo progressista e una rete di alleanze politiche che non rendano solitario, nella sua battaglia, il partito democratico». Infine prendeva atto di una situazione dove «l’attivismo di gruppi, sottogruppi, correnti e infuocati “capi locali” è stato più forte dell’identità unitaria e di ogni capacità di ascolto».
Dopo aver ricordato di non aver mai votato per Matteo Renzi e di non aver mai «mendicato intorno alla sua corte» si diceva convinto «che è profondamente ingiusto negare che (Renzi) rappresenti una grande forza e che grazie alla sua leadership il Pd si è ricollocato al centro della scena politica e ha avuto di nuovo un chance. Così come credo sia un errore fuorviante pensare che mandare fuori la sinistra dal Pd garantirebbe una identità “pura”, vincente e finalmente innovativa.». Posizioni, quelle di Zingaretti, che potrebbero trovare eco alla direzione del Pd di lunedì prossimo. Con la differenza rispetto a dicembre che l’aut aut dalla sinistra del partito a Renzi (congresso in autunno ed elezioni a scadenza legislatura il prossimo anno) non lascerebbero larghi spazi di mediazione. Ma in politica tutto può succedere, anche la ricomposizione di posizioni apparentemente inconciliabili.
G.L.