Roma, Pd senza identità

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Se oggi i presidenti della regione toscana Rossi a quello della Puglia Emiliano rimettono i discussione l’egemonia renziana sul Pd che ha portato alla sconfitta del Sì al referendum e prima a quella delle amministrative dello scorso anno, viene da chiedersi che ne è del Pd a Roma e nel Lazio. Quesito significativo se si considera che l’amministrazione Raggi sta dando, nonostante la strabiliante vittoria alle amministrative, il peggio di se stessa fra intrighi di palazzo e incapacità di gestire situazioni complesse come quella capitolina. Una situazione che avrebbe dovuto far lievitare la presenza di una sinistra romana che pure non dà segni di grande vitalità, esclusa l’iniziativa dei presidenti dei municipi promossa dalla minisindaca Alfonsi. In quell’occasione si invocava un congresso ‘vero’ su temi concreti, se volete vicini a quel popolo che oggi si astiene o vota Grillo. Nelle nebbie degli scontri di palazzo non si comprende ancora bene se il congresso cittadino del Pd avverrà prima o dopo le elezioni politiche. Il commissario Orfini, noto per la sua abilità manovriera quasi dalemiana, alle urne spera di andarci entro giugno come vuole Renzi evitando un congresso dove le tradizionali correnti risorte a nuova vita potrebbero fargliela pagare cara per questi due anni di suo incontrastato dominio. Ma se Orfini esita pro domo sua, nel frattempo i democratici si sfibrano nella incapacità di proporre una alternativa alle faziose e inconcludenti logiche grilline. A cominciare dai territori dove forse è ancora possibile mobilitare le superstiti energie di quella sinistra romana un tempo egemone e oggi tramortita da mafia capitale. Tramortita, certo, ma anche accodata alle logiche inquisitorie della Procura e a quel giustizialismo strumentale verso gli avversari che alimenta da solo il consenso dei 5stelle. Un partito romano che nei tempi è sempre stato un punto di aggregazione per larghe intese a sinistra e che fu battuto da Alemanno nel 2008 più per disimpegno alla pre- annunciata decadenza di questa Capitale che per la forza intrinseca di una destra prima barricadiera e poi arraffona e clientelare.

In questo clima di astenia politica, con circoli chiusi, calo dei tesserati, disimpegno dalla militanza attiva, circolano sparse pulsioni antirenziane (e di conseguenza antiorfiniane) dove le istanze scissioniste espresse sabato dal Maximo D’Alema potrebbero avere un peso non irrilevante. Non è un caso che un leader storico quale Goffredo Bettini rientri in qualche modo nella partita capitolina con il suo ‘progetto di area vasta’ in sintonia con Pisapia che propone una sinistra stampella del Pd, intenzione naufragata con l’esito del referendum. Emarginati i vendoliani in parte trasmigrati nelle fila di Fassina, la cosiddetta sinistra sinistra è divenuta afona, privata delle voci dei suoi consiglieri in aula Giulio Cesare, aggrappata con il vice alla Regione Smeriglio, a quella maggioranza che le consente di governare dalla Cristoforo Colombo. In questo vacuum riprende addirittura fiato la destra di Giorgia Meloni che strizza l’occhio alla Raggi (volevamo aiutarla ma non ci ha dato ascolto…) in vista di un accordo con Grillo dopo le politiche e offrendo una sponda anche a Salvini che da Roma in giù conta meno del due di picche.

Eppure Roma è politicamente strategica non solo per il valore simbolico di Capitale, ma perché, rebus sic stantibus, con la Raggi e i suoi in difficoltà potrebbe rappresentare il punto di caduta della esperienza grillina di governo. L’Armageddon degli avversari del comico. Tempo fa Nicola Zingaretti, che annunciava di voler proseguire la propria esperienza in Regione, proponeva un’assemblea ‘delle idee’. Una sorta di Leopolda più che un congresso, ma faceva anche capire sua la contrarietà al ‘voto subito’ propugnata compulsivamente da Renzi. Evidentemente le istanze rappresentate da alcuni minisindaci, militanti, ex amministratori e dal governatore non hanno trovato quella saldatura che, congresso o no, avrebbe potuto contrastare l’egemonia di Orfini che oggi traccheggia fra i ‘giovani turchi’ del Pd e Renziani doc in palese difficoltà. Allargando lo sguardo al partito regionale le differenze stanno nella satrapie territoriali che governano i pacchetti di voti sempre pronte a saltare sul carro del vincitore e che rischiano di schiantarsi sulle volontà di un capo (Renzi appunto) pronto a giocarsi l’ultima carta delle elezioni a giugno. Con i capolista bloccati, quindi con la possibilità di scegliere lui i futuri deputati fra buoni e cattivi. O meglio, a lui corrivi o meno. Quanto basta a creare fibrillazione fra gli attuali eletti di Roma e del Lazio a rischio di venir esclusi dalle liste con questo sistema proporzionale uscito dalla Consulta. Ragione di più per consolidare i loro pacchetti di voti anziché perdersi in vane discussioni di linea politica. Momenti di angoscia per la nomenclatura del Pd di Roma e del Lazio, incerta sul suo futuro e probabilmente propensa ad uno slittamento delle politiche che salvi la pensione e non solo. Tutto questo scricchiolio di di poltrone avviene in un vuoto di idee, progetti e, oseremmo dire, speranze, che relega questa sinistra nostrana ad una subalternità pavida e attendista. Scissione o meno ormai questo Pd è già scisso fra la necessità di sopravvivere con quel po’ di poltrone raggranellate nei comuni e alla Pisana (minacciosamente insidiate da 5 stelle) e il timore di perdere anche il baluardo regionale nel 2018. Qualcuno è convinto che questo partito ormai meridionalizzato con le sue clientele e i suoi boiardi, finisca per essere la plastica rappresentazione di una mutazione genetica da partito di popolo a partito del capo, degli eletti e degli amministratori. Un transustanziazione che finisce con Renzi ma parte da lontano. Con buona pace del ‘partito liquido di Veltroni’ coagulato in solidi e corposi interessi di bottega.

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