Il voto referendario avvicina il Lazio al sud Italia

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Sull’inequivocabile risultato referendario (il 41% dei sì e poco meno del 60% dei No) già dilagano i commenti, le opinioni e  le analisi lasciando ben poco spazio a sottili distinguo. E’ stato un voto politico dopo 7 lunghi e sfiancanti mesi di campagna elettorale che se non altro hanno avuto il merito di portare oltre il 68% degli italiani alle urne. Che poi la scelta referendaria o plebiscitaria sul capo dell’esecutivo siano la miglior forma di democrazia partecipata è tutto da dimostrare, soprattutto se la fiducia nei partiti scade sotto i tacchi della gente.
Una cosa è certa, anche la protesta che si esprime nel voto referendario, come ha detto lo stesso Renzi, va rispettata, ma se di protesta (e non solo in Italia) si tratta, tocca partire dalle ragioni profonde che la determinano.

Una analisi (si diceva un tempo) che il Pd non ha mai fatto seriamente affidandosi al carisma del capo che vince sempre. Che quel capo potesse perdere lo si era visto alle ultime amministrative, ma anzichè raddrizzare la rotta il partito della sinistra, che pure si è battuto per  le ragioni della riforma, non ha colto i segni del malessere sociale. Un malessere  che rende inquieti i ceti medi impoveriti, preoccupa i giovani che hanno votato No, mentre crescono le diseguaglianze, le sofferenze dei poveri, le paure per l’immigrazione e quant’altro rende incerta la nostra vita quotidiana. Questo non vuol dire che la riforma costituzionale non fosse buona e giusta in sé, ma solo che, tranne che in Emilia e in Toscana, il Pd non riesce più a cogliere quelle contraddizioni sociali di cui è stato interprete per decenni. Un partito che in tre anni di “Leopolde”, di giovani e rampanti nell’inner circle del premier, di insulse rottamazioni, arroganza e televendite, ha profondamente cambiato la sua natura.

Schiacciato fra il leaderismo del capo e le clientele locali (quando non satrapie) il Pd ha lasciato campo libero a chi, distorcendoli semplificandoli e talora mistificandoli, ha preteso di mettersi alla testa di disagi e sofferenze reali. Come pretendono di fare i 5stelle destinati a venir seppelliti (nel tempo) dalla loro stessa demagogia come sta accadendo a Roma.

Ma scendiamo con umiltà dall’empireo dei giudizi dell’establishment che nemmeno aveva intuito il possibile crack di Matteo. Solleviamoci dal molesto e inconcludente chiacchiericcio dei social network dai quali (ringraziando Iddio) non passano gli umori reali del Paese, per soffermarci sul risultato referendario del Lazio.

A ben vedere niente di sconvolgente perché il No con il suo 62% si è discostato solo del 3% rispetto al risultato nazionale. Ma se guardiamo a quel 68% di Frosinone e di Latina ci rendiamo conto che il sud della nostra regione in qualche modo si va allineando ai risultati di tutto il Mezzogiorno d’Italia.
Non che le altre provincie siano andate meglio, ma l’impressione è quella di un progressivo scivolamento della nostra Regione dai lidi rassicuranti del centro Italia a quelli più complicati del Sud e non solo sotto il profilo elettorale. Una tendenza che coinvolge anche Roma che, ormai agli ultimi posti delle numerose classifiche del buon vivere,  è segnata da una  progressiva senescente decadenza.

Non abbiamo dubbi che di quel 62% dei No i Grillini e Virginia Raggi non esiteranno a farsene merito e conferma del loro consenso elettorale. Ma mentre nel mondo le grandi capitali sono d’ostacolo al populismo, talora eversivo dilagante, Roma si allinea alla protesta delle aree più disagiate del Paese.

Ora  qualche bell’ingegno del Pd non esiterà ad intestarsi quel 38% restante se non altro per salvarsi la poltrona.  Ma la questione non è semplice perché ora tutti strillano “elezioni elezioni” con una legge elettorale diversa dall’Italicum. La speranza è quella di prendersi tutto il cucuzzaro che nessuno, dati alla mano, attribuisce a Grillo, Salvini o Berlusconi. Solo che nel Lazio la questione è ancora più complicata perché ad una amministrazione di sinistra alle Regione corrisponde l’ondata grillina nella Capitale e in molti importanti comuni. La legislatura regionale scade nel 2018 ma il quadro politico sta rapidamente cambiando e non è detto che il chiarimento in questa regione avvenga anche prima.
Giuliano Longo

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