Cinema, The Salesman di Asghar Farhadi: premio meritato a Cannes

Ha vinto per la miglior sceneggiatura e interpretazione maschile. Il peso di una cultura particolare si avverte in ogni scena del film

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The Salesman

Alla rassegna «Le vie del cinema da Cannes a Roma», organizzata dell’Anec Lazio con la Regione Lazio che per il secondo anno rientrava tra le iniziative CityFest della Fondazione Cinema, erano presenti la Palma d’oro I “Daniel Blake” di Ken Loach, il Gran premio della giuria “Juste la fin du monde” di Xavier Dolan, il premio per la regia “Bacalaureat” di Cristian Mungiu, la Camera d’oro “Divines” di Houda. E, ancora, “The Salesman” di Asghar Farhadi che ha vinto per la miglior sceneggiatura e interpretazione maschile.

Una rassegna dai tempi molto ristretti, almeno considerando la grande partecipazione sino a tarda ora degli appassionati, costretti a saltellare fra le poche sale che presentano i film.
Un premio meritato per l’iraniano “Salesman” di Asghar Farhadi che per quasi due ore inchioda lo spettatore in una sceneggiatura avvincente tutta ambientata a Teheran in un milieu di piccola borghesia occidentalizzata.

Eppure il peso di una cultura particolare si avverte in ogni scena del film, dove la storia narrata si intreccia con la rappresentazione amatoriale, da parte dei protagonisti, della commedia “The Salesman” (morte di un commesso viaggiatore) di Arthur Miller. La storia coinvolge una coppia di intellettuali iraniani che sono costretti ad abbandonare la loro abitazione per un imminente crollo, ma un collega di scena nella rappresentazione teatrale offre alla coppia una mansarda con una porta su una stanza, dove sono accumulati scarpe e abiti da donna, una bicicletta e qualche giocattolo.

Le tracce lasciate dall’inquilina precedente e il suo bambino. Una donna definita “dalle innumerevoli relazioni” per non usare il termine prostituta. Un giorno, mentre la moglie è sola in casa, un cliente della “signora” si introduce nell’appartamento, ignaro del fatto che ci siano nuovi inquilini e la coglie mentre è sotto la doccia (citazione da Hitchcok), e nello scacciare l’intruso si ferisce. Non c’è stupro, ma violazione di quella intimità e quindi dell’onore di questa donna iraniana. Un’aggressione o un incidente che mina la vita della coppia. Il marito insegnante si improvvisa moralizzatore e investigatore, sino a quando scoprirà il responsabile dell’aggressione.

Un 60enne cardiopatico messo alle strette sino al collasso. Un dramma nel dramma, in contesti sociali, culturali e familiari simili. Laddove il marito, che vuole interpretare con la moglie addirittura Arthur Miller, si trova a dover fare i conti con la cultura della vendetta, mentre la moglie, quella che ha subito il maggior danno psicologico ed emotivo, finisce per essere la rappresentazione dolente del perdono.

Ed è questa la contraddizione fra valori tradizionali e la cultura islamica che in qualche modo stimola la ricerca del regista Fharadi, uno dei più grandi esponenti del cinema iraniano. Un film girato su scenografie scarne, fra le ombre del teatro e la luce solare di una Teheran viva e indaffarata. Teso come un thriller e ricco di intensi ed espressivi primi piani. Un’opera dove la scena con l’imminente crollo di un palazzo è la rappresentazione più plastica dell’imminente collasso di un sistema di valori, costumi e culture nell’Iran di oggi.
Lucignolo