Bruno Astorre è un senatore del Pd dal 2013 che oltre ad essere legato ai territori sud della provincia di Roma ha percorso il suo cursus honorum prima come come assessore ai lavori pubblici della Regione Lazio con la giunta Marrazzo e poi nel 2009 presidente dell’assemblea regionale alla Pisana. Lo incontriamo negli uffici del Senato decentrati a piazza san Callisto. Inevitabile la prima domanda (maliziosa) sul futuro del senatore che, come i suoi colleghi, si è fatto harakiri con la nuova legge.
«Io vivo per la politica, ci dice, e non di politica. Quindi se il Pd deciderà di candidarmi alla Camera alle future elezioni politiche ben venga, altrimenti ritornerò a fare il funzionario di banca» perché, sembra sottintendere, io un mestiere ce l’ho. In verità lo scopo dell’incontro era quello di dissipare i luoghi comuni che, secondo Astorre, parte della stampa va diffondendo su questa riforma costituzionale. Una riforma che dovrà passare al vaglio di un referendum confermativo che non rischia di essere vanificato dal quorum, perché in sostanza indipendentemente dalla percentuale, la maggioranza semplice dei votanti approva o disapprova. Comunque è innegabile l’indifferenza diffusa verso una legge che ha coinvolto più la classe politica che il Paese.
E qui Astorre non ci sta: «Va sfatata la leggenda secondo cui “di riforma non si mangia”, perché l’abolizione del Senato, il riequilibrio dei rapporti fra Stato e Regioni e l’abolizione delle Provincie, introduce criteri di razionalità ed efficienza che incidono profondamente nei meccanismi della governabilità.» Quindi non è un papocchio che mira a consolidare i poteri dell’esecutivo «ma un compromesso alto fatto in Parlamento con la minoranza del Pd e con il Nuovo Centro Destra che consentirà di far eleggere direttamente dal popolo i consiglieri regionali e i sindaci che faranno parte della nuova Camera Alta che sostituirà il Senato.» Ma soprattutto «prevede l’elezione proporzionale della nuova Camera delle Regioni impedendo al partito che vincerà le elezioni con l’Italicum di eleggere da solo il Capo dello Stato e due giudici costituzionali.»
Infatti i nuovi eletti, per di più senza alti emolumenti, «condizioneranno la nomina di queste cariche con i due terzi dei voti.» Barriere protettive alla preponderanza dell’esecutivo? Per Astorre evidentemente sì. Anzi per controbattere le critiche di sinistra ci ricorda che fu lo stesso Ingrao nel 1985 a criticare il ‘bicameralismo perfetto’. Citazione autorevole ma che non dissolve i dubbi di chi non è favorevole alla riforma e che potrà far sentire la sua voce al referendum del prossimo anno. Sfatati i luoghi comuni, parliamo del titolo V della costituzione, quello dei rapporti fra Stato e Regioni e che certifica l’abolizione delle Provincie.
«Una norma che – per Astorre – non smantella ma riequilibra quella che fu la scelta del Governo e della sinistra nel 2001, pressato dalle istanze autonomistiche del Partito del Nord. Una decisione che ha creato una infinita serie di contenziosi Stato/Regioni, talora paralizzanti.» Ora scompare la cosiddetta ‘legislazione concorrente’ e la riforma riconduce alcune funzioni direttamente allo Stato. Ad esempio in materia di infrastrutture, energia e sviluppo, con una sorta di competenza esclusiva anche per l’università e la ricerca, il turismo ecc. Mentre per la Sanità lo Stato àvoca a se i poteri di indirizzo. Ma cosa succederà sui territori una volta formalmente abolite le Provincie?
«E’ evidente – ci risponde Astorre – che dopo la riforma Delrio abbiamo finalmente una norma costituzionale che le abolisce e quindi fine delle polemiche.» Ora Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo «dovranno trovare altre macro aggregazioni territoriali o enti di ‘area vasta’, spetta ai comuni e alla Regione decidere come» ma se ne riparlerà nell’ottobre del 2016 dopo il referendum. Altra aggrovigliata questione riguarda la città metropolitana di Roma. «Questa è già prevista dalla Costituzione, ma il suo statuto prevede l’eleggibilità del presidente. E sin qui va bene, ma manca al disegno complessivo la costituzione dei municipi della Capitale in Comuni. E non mi pare che la classe politica Romana abdicherà volentieri su questo punto.»
A monte c’è anche la sorte della Regione Lazio, mutilata di qualcosa come 4.00.000 abitanti fra Comune e provincia su una popolazione di cinque milioni a livello regionale. Ne parleranno le future generazioni, ci dice Astorre, che con molto realismo politico si rende conto che in questo caso ballano altri e tanti interessi. Comunque la botta ad un sistema invadente e sclerotico delle autonomie è stato dato, anche se la porta si è appena schiusa e i campanili, soprattutto nel Lazio, sono duri da buttar giù.
[form_mailup5q lista=”politica”]