Il rugby e la cucina, due passioni, due amori, non per forza legati tra loro ma che raccontano molto, ma non tutto, di Gabriele Rubini, Chef Rubio per il grande pubblico. Nato a Frascati, classe ’83, cresciuto giocando con la palla ovale sui campi di Parma, Rugby Roma, Rovigo e Lazio, o come scrive lui sul suo sito «mi son formato lavorando sul campo, girando il mondo e affinando l’arte e le conoscenze culinarie diplomandomi come Chef internazionale di cucina italiana all’Alma».
Due mondi diversi, quello del rugby e della cucina, ma che in un certo senso sono legati con un filo unico, perchè girando l’Italia e il mondo (ha giocato in Nuova Zelanda con il Poneke e qui ha lavorato anche in un ristorante) Rubio ha apprezzato i diversi sapori e le tradizioni culinarie dei posti dove ha vissuto. Ora questi mondi così diversi sono diventati due programmi cult di DMax (canale 52 del digitale terrestre) “Unti & Bisunti” e “Il cacciatore di tifosi”, in cui lui è il protagonista, il conduttore itinerante sul suo minivan che porta il telespettatore in viaggio in questi due universi. E con il Sei Nazioni alle porte sarà anche all’Olimpico di Roma nelle gare casalinghe dell’Italia (contro la Scozia il 22 febbraio e contro l’Inghilterra il 15 marzo) «per dare un assaggio verace della festa e del calore che ruotano attorno agli eventi sportivi, curiosando in giro e organizzando speciali pic-nic con i tifosi».
Da dove nasce questa passione per l’arte culinaria?
«L’attitudine a mangiare e a cucinare c’è sempre stata. In famiglia mia mamma, le zie e le nonne hanno sempre cucinato bene, per cui sono stato abituato alla buona cucina. Poi conoscendo nuove culture questa passione si è amplificata, e così anche per dare risposte alle tante domande e curiosità che avevo sui cibi e sulle ricette mi sono concentrato su questa attività».
Lei è uno chef fuori dai canoni rispetto a quelli a cui la tv ci ha abituato. Perchè in “Unti & Bisunti” ha focalizzato la sua attenzione sullo street food?
«Mi piace la cucina a tutto tondo, perchè racchiude storie, vita, ha una sua magia. Il cibo da strada è quello dei viaggi, della conoscenza dei sapori, del contatto con la popolazione. Il cibo è l’anima e l’essenza di una nazione, è il suo specchio, è ciò che di buono offre, la cucina è cultura, contatto con la città e con i suoi abitanti».
Nel programma “Il cacciatore di tifosi” va a caccia di gente comune che si possa innamorare del rugby, facendosi aiutare ogni volta da un atleta della Nazionale Italiana che per l’occasione veste i panni del coach. Quali sono le armi che usa?
«Alla base c’è sempre la passione assoluta per tutto ciò che mi piace realmente. Io con l’inganno entro nel mondo dei tifosi che voglio portare nel rugby, mi fingo motociclista o calciatore e via dicendo, poi “rapisco” le persone e le porto sul campo. Cerco di mostrargli tutto quello che succede nel mondo della palla ovale, dallo spogliatoio al campo fino al terzo tempo. Non possiamo spiegare le regole nel dettaglio, per cui diamo dei macro concetti su come funziona il gioco, si fanno degli allenamenti sul campo, una partitella e poi ci si ritrova per il terzo tempo a base di pasta e birra».
In entrambi i programmi ci sono la sfida, il coinvolgimento, la conoscenza e una morale. Secondo lei tra rugby e cucina ci sono delle similitudini?
«Direi di no, non ci sono similitudini e non vanno di pari passo, poi ovviamente molto dipende dalle situazioni. Per me il rugby è una sfida, la cucina è condivisione. I programmi si basano su degli escamotage per raccontare in uno il mondo della palla ovale e nell’altro un piatto tipico di un posto».
Molti conoscono Chef Rubio, «l’eroe della cucina di strada» pronto ad esplorare, ad assaggiare cibi, a provocare con le sue battute. Ma com’è nella vita di tutti i giorni Gabriele Rubini?
«Quello dentro i programmi sono io, ma sono io solo in parte, sono molto di più di quello che si vede. Io sono uno a cui piace sapere tutto. Leggo molto, i quotidiani per esempio. Poi seguo tutti gli sport, mi interesso di rugby come di calcio e di basket. In tv spiccano solo alcune parti del mio carattere, non rappresentano la mia totalità come persona».
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