Il renzismo, si sa, è un nuovo modo di far politica fatto di annunci mediaticamente appetibili ma anche di decisionismo. Che il nuovo direttore generale della Rai Antonio Campo Dall’Orto fosse fra gli “eletti” dell’inner circle renziano si sapeva ancor prima della ultima kermesse della Leopolda dove i migliori cervelli convennero, e converranno a dicembre, per definire la road map dell’italica rivoluzione. Ma, curiosamente e contrariamente alle attese, Antonio sta chiuso nel suo ufficio ed elabora, pensa, medita guardandosi bene, almeno per ora, da metter mano alla nuova governance dell’azienda per la quale dovrà pur muovere le pedine dirigenziali. Cosa che farà sicuramente appena la legge gli darà i pieni poteri e il ruolo di amministratore delegato, mentre nel frattempo coabita con i manager voluti dal suo predecessore Luigi Gubitosi.
LA FILOSOFIA DI DALL’ORTO – Il suo pensoso silenzio crea però una certa agitazione negli uffici di viale Mazzini, ma anche a Saxa Rubra dove i telegiornali dovrebbero venir accorpati e l’Usigrai, sindacato dei giornalisti, è pronta a fare le barricate. E allora che farà dell’Orto? Per ora tien tutti sulle spine ma la sua filosofia a ben vedere, l’ha illustrata al Foglio di Cerasa/Ferrara già a settembre e non promette nulla di buono per i culi di pietra dell’azienda. In quella occasione Antonio spiegava che bisogna trasformare la Rai “da broadcast a media company”. Per questo occorre “valutare al meglio tutte le opportunità distributive che ormai non possono essere più rappresentate solo e soltanto dall’apparecchio televisivo. Negli Stati Uniti, per dire, si ragiona pensando prima alla qualità del prodotto che si vuole e poi alla distribuzione”. Questo significa “trovare e sperimentare un nuovo tipo di linguaggio capace di essere al passo con i cambiamenti della società” con l’occhio rivolto ai nuovi social network avanzati. Perché oggi “non si può pensare che il compito centrale del servizio pubblico sia quello di affermare e diffondere un linguaggio primario; il compito vero, oggi, è quello di accompagnare le persone in un nuovo mondo provando non a diffondere un normale e ormai stra-conosciuto alfabeto ma provando semmai ad anticipare una nuova forma di alfabetizzazione”. Una Rai future-pop che “in sintonia con la contemporaneità” consapevole che “le persone a cui la Rai deve parlare non sono solo quelle che oggi già vedono la Rai ma sono anche tutti coloro che per qualche motivo hanno deciso di non seguirci più”. Infatti è un errore pensare “che ci sia uno zoccolo duro di telespettatori che comunque andranno le cose ci sarà sempre… ma la Rai deve entrare in una nuova ottica, più inclusiva. Deve sperimentare un nuovo racconto popolare in cui non si ha paura di spiegare a chi guarda i nostri canali che i miti di un tempo non sono miti assoluti ma sono miti che vanno accostati a quelli più moderni”.
DIRIGENTI IN ALLARME – Poi un chiaro campanello d’allarme che dovrebbe suonare per gli attuali dirigenti: “In un’azienda che vuole conquistare i trentenni, se le persone sotto i trent’anni sono 200 su 13 mila dipendenti qualcosa debba cambiare con urgenza”. E allora si rottami e alla grande con prepensionamenti, scivoli, incentivi ecc.! Se poi nel 2016 dovrà essere rinnovata la convenzione tra la Rai e lo Stato e “la nuova convenzione dovesse avere al centro la necessità per la Rai di essere la fonte primaria dell’alfabetizzazione digitale e culturale del nostro Paese, il fine ultimo sarebbe questo e non più il solo dato degli ascolti del giorno precedente”.
IL MISTERO – Giustissimo, ma quali sarebbe gli altri dati? Certo, non quelli di Mediaset che continuerà a macinare profitti pubblicitari sul suo stanco e vecchio pubblico che non intende affatto ri-alfabetizzare. Non è certo un dato il canone obbligatorio in bolletta che porterà un mucchio di quattrini, sarebbe banale per il nostro colto DG. Qui il mistero si fa fitto, ma si presume che la filosofia innovativa e futuristica di Dall’Orto consentirà l’ingresso in Rai di personale proveniente dalle università, dai centri di ricerca, dalle start up di internet, dagli esperti dei socialmedia e così via. Tutto quel mondo in Italia pur sempre limitato ma che trae alimento dalle esperienze Usa. E lì sta il modello di Antonio e di Matteo. Che la buona sorte li accompagni.
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