Ritorna il Trono di Spade, tra fantasy e realtà

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massimo d'alema jaime lannister matteo renzi jon snow di maio m5s estranei

Domenica inizierà su Sky la nuova e, si dice, ultima serie di “Game of Thrones”, che da noi si chiama “Il Trono di Spade”. L’avevamo lasciata quando uno dei draghi buoni era appena morto trafitto dal re dei non-morti, che però lo aveva recuperato dal fondo di un lago per farne –grazie al suo tocco- un ulteriore non morto, ma capace di creare molti guai ai suoi ex amici tuttora vivi. Situazione intricata, ma si tratta di fantasy, e non è necessario che vi raccapezziate davvero fra la miriade dei personaggi e il groviglio delle trame. Quel che vi è chiesto è semplicemente di lasciare accadere quel che è fatale accada: che ogni personaggio e ogni trama, senza intervento da parte vostra, trovino in voi risonanza quanto basta e annullino così la distanza fra il divano e lo schermo.
È così che funziona, e da millenni il raccontatore di successo è –a parere nostro- quello che gestisce la combriccola di fantasmi alloggiata dentro ogni spettatore. A partire dal genere fantasy che, ben prima dell’Anello, di Harry Potter e del Trono di Spade ha conosciuto i successoni dell’Iliade e dell’Odissea.
Sentiamo anche affermare al contrario (ad esempio sul New York Times di oggi, sulla scia della ripartenza della serie) che la materia prima del fantasy non è quel che siamo, ma ciò che non siamo (maghi, eroi, draghi e via sognando). E che dunque il successo del fantasy sta nel farci evadere dalla realtà, non nel rifriggerla in vari modi. Fosse così potremmo schiantarci tranquilli in poltrona a goderci senza pensieri le finali evoluzione della cricca del Trono di Spade.
Perché i casi sono due: 1) se, diversamente dal NYT, assumiamo che tutti quei personaggi, altro che evasione. siano camuffamenti degli spettri che ci abitano, dovremmo chiederci cosa ci sia sotto, ma contemporaneamente guardarci dall’indagare perché sospettiamo che lo sputafuoco sullo schermo sia un bonaccione rispetto ai draghi che ci alloggiamo; 2) se invece, viva l’evasione, a quei mondi ci volgiamo per “evadere”, come andando al Luna Park, dovremmo chiederci quale sia la prigione da cui vogliamo squagliarcela.
NYT opina che quella “prigione” sia la sensazione di incombente catastrofe politica e ambientale. Ma constata anche che il fantasy si ambienta sempre, gira e rigira, in una qualche versione di alto Medio Evo, sia Trono, Anello o Harry Potter. E allora ci viene il dubbio che il Settecento, l’Illuminismo, la Rivoluzione Industriale e, va da sé, la Democrazia siano le prigioni da cui non vediamo l’ora di scappare. In groppa a un drago populista.

Stefano Balassone