Certo che l’arrivo dei renziani in Rai è riuscito nell’intento più incredibile, quello che nemmeno il più fantasioso degli scrittori avrebbe mai osato: spostare l’asticella ancora più… in basso. Che diciamoci la verità, nel ventennio di influenza berlusconiana con la destra al potere se ne son viste delle belle soprattutto a Rai Uno ma quello che sta accadendo negli ultimi mesi fa apparire dei giganti i vari Del Noce, i Masi, le Lorenza Lei, le Tarantola, i Mauro Mazza, persino Leone… ed è dura ammetterlo.
Per quanto non condivisibili, almeno questi operavano delle scelte, mandavano avanti l’azienda con alterne fortune mentre a questo giro, anzi girone, stiamo assistendo a capolavori di nulla assoluto. Antonio Campo Dall’Orto arriva d’estate e si chiude in un eremo, non riceve nessuno, e comincia a pensare, ad analizzare, a capire la macchina e dopo mesi e mesi di pensiero solitario che fa? La rivoluzione? Ristrutturazione profonda, licenziamenti di massa?
No! Comincia a parlare in fuffese spinto proprio come chi lo ha scelto e inforna una ventina di dirigenti di grande esperienza in aziende che sono grandi un centesimo di quella che sta “studiando” con tanta attenzione per operare, dice lui, la transizione a “media company” che per tutti ormai a viale Mazzini è sinonimo di “sola planetaria” e rischio cassa integrazione. Ma non è solo perché con lui c’è il super commissario Verdelli, ovviamente proveniente dallo spazio esterno, per sovrintendere e ottimizzare il lavoro di quello che è davvero uno dei grandi problemi della Rai, il sovraffollamento di giornalisti, più numerosi di una colonia di criceti.
Cosa ha fatto? Beh, in concreto ha permesso che andasse in onda la più surreale delle interviste televisive, quella al figlio di uno dei capi mafiosi più potenti e sanguinari della nostra storia recente venuto a promuovere il suo libro in uno spazio di circa un’ora senza un filo di contraddittorio. In quella occasione abbiamo assistito al più squallido dei teatrini, paragonabile soltanto al “gioco delle tre carte” in voga negli Autogrill: «io non so nulla, io non censuro, io sono arrivato da poco e poi c’è l’altro che se ne occupa».
Tra i soggetti del teatrino c’è una delle creature più riuscite di questa new generation: stiamo parlando di Fabiano il giovane ormai per tutti “Fabiano il gambero”, anzi ci dicono che il paragone più ricorrente sia con un altro genere di animale con meno corazza ma sorvoliamo. Andrea Fabiano, il direttore giovane, anzi, il più giovane di tutti i tempi, colui che avrebbe dovuto dare un segno di discontinuità forte. L’ha dato eccome… un segno di discontinuità tale che non vi è stata decisione che non lo ha visto tornare indietro sui suoi passi, di continuare ad andare avanti proprio non gli riesce. Non è riuscito nemmeno a liberarsi da chi perde punti di share come gli alberi d’inverno.
Impaurito di fronte alla voce grossa di Elisa Isoardi non ha portato a termine il progetto del suo predecessore, il “vecchio Leone” che invece aveva puntato tutto sul biondo cavallo vincente anche a costo di risultare un po’ eccessivo come negli sperticati complimenti a Sanremo. Ci chiediamo chi, in questo quadro desolante, avrà per primo il coraggio di tirarsi fuori da questa melma in un estremo atto di consapevolezza. Sentiamo di consigliare proprio al più giovane e meno tutelato del terzetto di fare un provvido passo indietro per uscire da questo vortice: le sue spalle così managerialmente fragili hanno bisogno di rinforzarsi. “Il ragazzo deve farsi le ossa” si dice di solito e noi gli auguriamo davvero che ciò accadrà in un futuro… ma adesso no, adesso è ancora un gambero…
Bob