Oltre cento film, più di venti fiction, decine di premi, un’attività che dura dal 1960. Pasquale Zagaria, in arte Lino Banfi, dall’alto dei suoi 80 anni riesce ancora a stupirti con il suo spirito, le sue battute, i suoi aneddoti. È uno dei maggiori attori italiani, uno dei più prolifici, capace di interpretare personaggi completamente diversi: dal pompiere al disoccupato, dal poliziotto al ladro, dal professore all’allenatore di calcio. Tutti però con un filo conduttore che li lega, vale a dire la sua semantica, il suo dialetto. Diversi sono stati anche i registi che lo hanno diretto e le spalle che lo hanno accompagnato fra le sue mille eroicomiche. E a quanto pare Lino Banfi è anche uno dei “sogni proibiti” di Quentin Tarantino.
Che bilancio fa dell’ultima stagione di “Un medico in famiglia”? Come è andata?
«Benissimo, forse meglio degli ultimi anni. Quando cominciammo a girare “Un medico in famiglia” i primi anni si faceva anche il 30% di share. Poi piano piano negli anni è normale che cali. Oggi è già un successo se fai il 15%. Sono passati circa 20 anni dalla prima. Con questa ultima stagione abbiamo sempre vinto la serata, nonostante c’erano spettacoli nuovi, ad esempio Sky, “Rischiatutto” su Rai Tre, altre cose su Rai Due e Canale 5. Dalla prima puntata alla tredicesima. È già un bel risultato».
La Rai ha in programma di fare anche l’11esima?
«Non lo so se la faranno o se farò in tempo a farla io (sorride, ndr) perché sono vecchio, non sono giovane: se volete farla, sbrigatevi. Non si può aspettare molto. Fra una stagione e l’altra passa un anno, un anno e mezzo. Il tempo di scriverla, di prepararla. Tredici puntate vuol dire ventisei episodi da 50 minuti. Non è una cosa semplice. Senza contare il rifare e l’aggiustare. E poi girarla non è semplice, nonostante la faticaccia mia e di tutti nel fare di corsa le scene. Cominciammo la prima serie facendo 3-4 minuti di montato, adesso siamo arrivati a farne anche 10-12».
Quanto ha influenzato il fatto che la famiglia di nonno Libero sia cresciuta insieme al suo pubblico?
«La differenza fra noi e le altre lunghe serie come “Il commissario Montalbano”, “Don Matteo”, grandissime serie, è che lì succede un omicidio, si trova il colpevole e finisce lì. Nessuno del pubblico si deve ricordare l’assassino o la vittima. “Un medico in famiglia”, invece, continua negli anni. Quindi devi ricordarti questo ragazzino che cominciò a lavorare con noi, che aveva 2 anni e adesso ne ha 22. Quell’altro, che era mio nipote nella terza serie, adesso ne ha 18. Tutto questo porta il pubblico ad avere una memoria, a ricordarsi come si chiamano i parenti di tutti e quindi si traduce in un pubblico affezionato che non cambia mai di numero. È sempre numeroso».
Ha lavorato con grandi registi e attori, ci racconta un aneddoto? Che aria si respirava sul set?
«Questi film che sono ormai diventati cult-movie, anche quando io non ero protagonista assoluto come “Fracchia la belva umana”, con Paolo Villaggio. Le cose che si ricordano di più sono quelle del mio personaggio. Ad esempio la canzone della Parolaccia che diceva “benvenuti a sti frocioni”, che tutti hanno sui telefonini, quella non era in programma. Non era proprio sul copione. L’attore doveva solo dire “benvenuti a sti frocioni, grandi e grossi e capocchioni e tu che sei un po’ frifri dicce un po’ che c’hai da dì”. E io dovevo rispondere “arrestatelo sto stronzo, sono commissario”. Invece io dissi “continua, continua” a suonare. Tanto che si vede che l’attore guarda il regista per dire “vado avanti?”. Il regista evidentemente gli ha fatto cenno di sì, neanche lui sapeva che avrei detto io. Mi lasciavano fare le cose che potevano essere occasioni divertenti. E io dissi “continua, continua” e poi “non sono ricchione, non sono frifri, sono commissario e ti faccio un culo così”. Mi inventai il motivo e così è rimasto. Questo per dire come nascevano i nostri film».
Con la commedia lei ha affrontato tante tematiche sociali importanti e così di fatto le ha portate nelle case degli italiani. Ridendo e scherzando avete fatto una sorta di servizio pubblico?
«Ho fatto il commissario, l’allenatore di calcio, il poliziotto. Figure a sfondo umano, sempre di buoni sentimenti. Però ogni tanto quando mi incazzavo… la chiave mia è che sono buono, acconsento a tutto, faccio il martire in molti personaggi. Però quando si tratta di arrabbiarmi questo martire dice “ti spezzo la noce del capocollo”. Queste cose hanno sempre fatto ridere perché sono assurde, però fanno parte di un linguaggio giovanile».
Lei ha di fatto creato un genere e personaggi con battute diventate poi famose e di uso comune. Ecco, è anche così che nasce un nuovo modo di dire?
«Un gruppo di ragazzi che mi segue dal veneto vuole fare il vocabolarietto “banfiato” e proporlo all’enciclopedia Treccani. Queste terminologie le hanno usate scherzosamente anche altri. Lo stesso Zalone fa la mia imitazione, si diverte. Dice “porca puttena”, “ti spezzo la noce del capocollo”, ma imitando me. Anche negli uffici, ad esempio quando il direttore di banca si arrabbia con il dipendente, per alleviare la rabbia dice “porca puttena”. Tutti ridono, però, in quel momento è arrabbiato lo stesso. Però attenua molto. Molti si chiedono perché Banfi lo può dire e io no? Detto da me con questo linguaggio non è considerato una parolaccia».
Cosa vede in televisione? C’è qualche giovane attore che segue con interesse?
«Vedo le fiction per capire il meccanismo e gli altri attori. Son tutti bravi. Adesso si usano molto questi giovani 40enni belli, fisicamente prestanti, che fanno sport. Sono considerati i belli della situazione, eredi di Raoul Bova, di quelli che una volta erano Fabio Testi o Giuliano Gemma. Ora nelle fiction c’è questa categoria di giovani belli e alcuni di questi sanno anche recitare bene. C’è una bella gioventù che sta venendo fuori. Amo vedere un po’ di tutto, alcune cose che mi fanno ridere come Zelig con questi nuovi comici. Però sono un po’ in confusione le persone: una cosa è fare un monologo di 6-7 minuti, dove puoi far fare anche tante risate alle persone. Ma vanno in apnea, come dico io, fanno un lungo respiro e cominciano a parlare e fanno ridere. Un’altra cosa è fare un film di 1 ora e mezza, dove devi far ridere in molte situazioni, devi fare delle facce speciali, dove non puoi esagerare nei primi piani, dove fai la pausa, questo viene fuori solo con la grande esperienza. E molti credono che dopo aver avuto successo in due o tre trasmissioni possono fare subito i protagonisti di un film o di una fiction. È diverso il discorso. Alcuni ci riescono, altri si perdono per strada. Ci vuole un po’ più di pazienza».
Altri progetti a cui sta lavorando?
«Sì, dei progetti che non sono né cinema, né fiction. Sono dei progetti agroalimentari. Ho fatto un marchio mio su 7-8 prodotti pugliesi che sto analizzando da tempo. Sono prodotti mangerecci: pasta, orecchiette, olio, mozzarelle, burrate, il capocollo famoso di Martina Franca, vini, pomodori. Si chiama “Bontà Banfi”. Ci sarò io che dico “io metto la faccia, la Puglia il resto”. Saranno distribuiti su tutto il territorio nazionale e all’estero. C’è questa grande sorpresa verso febbraio. Tutto made in Puglia, a chilometro zero. Anzi io dico a chilometro certo: deve essere sicuro».
Alessandro Moschini