Populismi che passano. E che restano

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eri, mentre da molte parti, anche a Roma, si votava, percorrevamo via Enea, l’ombrosa traversa che dall’Appia conduce alla Tuscolana. Quartieri medi, certo non alti. Quand’ecco che sfioriamo una coppia di maschi adulti impegnati in fitta chiacchiera circa il senso dello spread. E, non bastasse, dopo pochi passi si fa incontro la signora che profferisce “Sì, Conte!..  ma che non se li fanno i conti loro….?” al marito che la segue gravato dalle borse della spesa. E alla svolta della Tuscolana uno che al telefonino sghignazzava “Conte, il Presidente, ah ah, che tutti ci invidiano” e subito ci ha uncinato con un: “che, non è d’accordo?”. Ne è seguito un rapido scambio dal quale abbiamo appreso che il Nostro si trova sì nella fase attendista del “Facciamoli lavorare e poi decidiamo”, ma avendo già levato la sicura all’arma del voto (peraltro, ci ha tenuto a precisare, “Tutti meglio di Renzi”, tanto per distinguersi dal nostro balbettio riformista).

E dunque non ci hanno sorpreso i dati delle amministrative di ieri 10 giugno dai quali sembra emergere che l’ondata “populista” si stia riconvertendo in radicalizzazione a destra e disincanto a sinistra. Come se il populismo italiano non fosse una “cosa in sé” ma il movimento di aggiornamento di Destra e Sinistra che rimescola la prima, facendola più simile ai Tea Party della Far Right americana, e la seconda sottoponendola alle tensioni fra moderati e liberal a loro volta alle prese con l’universo radical della far left.
È in televisione invece che il “populismo” costituisce la sostanza e non il transitorio accidente. Innanzitutto per le caratteristiche proprie del mezzo tecnico, dove l’emittente (l’autore, il conduttore, etc) non vede il destinatario e dunque le spara grosse sperando di non passare inosservato. E poi perché tanti anni di tv duopolistica, realizzata con i fichi secchi per arricchire il privato e mantenere la corporazione, hanno selezionato un personale scaltrito nel fare la tv che c’è, ma alieno dal pensarne un’altra. Tutti contemporaneamente protagonisti e vittime dello stato delle cose.
La politica, in sostanza, subisce e sfrutta il populismo, ma arriva a metabolizzarlo entro le proprie identità storiche; la tv, invece, è una macchina populista. E già sappiamo, perché lo abbiamo constatato altre volte, cosa sta per accadere: il nuovo governo, che del populismo mediatico ha fatto grande uso, cercherà alle prime difficoltà (e già ci siamo) di smorzare il populismo intrinseco della tv. E in questo, inane, tentativo brucerà –fra nomine e velleità regolative- tutte le buone intenzioni (se mai l’ha avute) di fondare una solida industria televisiva, quella che da mezzo secolo manca.

Stefano Balassone