Rai Uno, tutte le spine de Il Nome della Rosa

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Il Nome Della Rosa, versione Sean Connery, segnò – ci sembra attorno al 1990 – il record d’ascolto (oltre 12 milioni di spettatori) per un film trasmesso in tv. Al punto da spodestare il precedente recordman, cioè Rambo.
La omonima serie TV non è ovviamente destinata a platee altrettanto vaste, perché la serialità, che non si basa sulla trama, ma sull’avvicendamento intrecciato di più storie, tende per la sua stessa struttura a confondere il pubblico al suo esordio e a costruirselo puntata dopo puntata, man mano che gli spettatori cominciano a raccapezzarsi e a maturare l’attesa per quel che accadrà a questo e/o a quel personaggio.

Così, il 4 marzo la prima puntata è stata accolta nei primi minuti da una adunata eccezionale di 7,7 milioni di spettatori, quanti sono soliti raccogliersene all’inizio delle puntate di Montalbano. Salvo che mentre con Montalbano la cifra poi si accresce, qui si è innescato l’inverso, e alla fine della puntata la platea si era ristretta a 5,2 milioni. Esattamente, guarda caso, il numero di quelli che una settimana dopo si sono presentati per vedersi la seconda puntata e che tuttavia non avevano ancora finito di auto selezionarsi visto che anche stavolta si è verificato, specialmente fra le donne, un forte esodo di spettatori in corso di puntata.

E tuttavia Il Nome della Rosa – la serie pare non dispiacere a un pubblico molto giovane, al punto che i maschi e le femmine dai 4 ai sette anni raddoppiano fra la prima e la seconda puntata, in assoluta controtendenza rispetto a genitori e nonni (e anche i non anziani, fino ai 40 anni sono quelli che hanno registrato meno diserzioni dal primo al secondo lunedì). Come se i più giovani vi trovassero sapori dei quali sono particolarmente esperti – tipo il capostipite Lost – che determinano quel tanto di attesa che evita lo zapping, fra una scena di sesso, l’avanzarsi in oscuri cunicoli, saltuari quanto garantiti inseguimenti e duelli. Narrazioni scaltre sul piano dell’espressione, e tranquillamente prive di pretese su quello del contenuto, dove non si sa bene cosa accade, purché accada.
Resta da capire, il perché della specifica, maggiore fuga del pubblico femminile rispetto a quello maschile. E qui possiamo divertirci con le ipotesi. Ad esempio, l’ambientazione in un convento di frati sessualmente autoreferenti; oppure il carattere posticcio delle eroine, un po’ simile alle compagne di college di un telefilm adolescenziale; oppure il fatto che le donne cerchino comunque e preliminarmente un contenuto narrativo, il dramma che qui latita, al di là degli stilemi espressivi, che qui straripano.

Stefano Balassone
Già nel cda Rai e vicedirettore di Rai3