Amarcord, fra “tv libere” e libertari del web

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Auditel

Profumo di gioventù, cioè d’antico, è quello che abbiamo percepito attorno alla questione della direttiva (se il termine è esatto) del Parlamento Europeo attorno al web.
Qui si contrappongono da un lato i “nuovi”, cioè i “distributori”, ovvero le piattaforme più o meno social del web (da Google a Facebook), dall’altro i “vecchi” cioè i “produttori” (cinematografari, imprese giornalistiche, impresari di spettacolo, istituti di ricerca scientifica, sociale, artistica) col loro affamato codazzo di autori e interpreti. I secondi arroccati nella difesa e rafforzamento del diritto d’autore, per essere pagati. I primi abituati a guadagnare grazie all’incetta e distribuzione di materiali rubati e forti dell’appoggio morale di miliardi di navigatori assuefatti da anni allo spaccio “gratuito” intrecciato alla pubblicità.
Una simile contrapposizione si verificò in Italia 43 anni fa. Eravamo nel 1976, la DC si andava sgretolando, il PCI godeva di una effimera esplosione di consensi, le BR e Cerare Battisti avevano preso a scorrazzare in proprio e per conto terzi. Col pretesto di una sentenza della Corte Costituzionale che legittimava l’esistenza di tv private a livello locale, dalla sera alla mattina di un giorno di settembre ogni antennista inalberò una propria emittente televisiva (per non parlare di quelle radiofoniche). E la cosa avvenne a furor di popolo perché c’era voglia di novità e quella cascata di tv “libere” rispetto a mamma RAI era bella grossa. In capo a pochi anni non ne rimaneva nessuna e, alla faccia della libertà, si era formato il Duopolio che da allora subiamo. Ma nel frattempo, erano anche scomparsi nove su dieci cinematografi, la produzione nazionale di film si era ridotta a quel che è tuttora (un pulviscolo di irrilevanti titoli realizzati con la carità pubblica, cine panettoni, sporadici “capolavori”) e si sono persi posti di lavoro a rotta di collo neppur lontanamente compensati dallo striminzito organico necessario a Mediaset per comprare (che costa infinitamente meno che produrre) la roba che circolava sulle tv mondiali.
La lezione che imparammo allora è che la prima mossa che prelude a un restringimento dei margini di libertà e delle opportunità di lavoro è di prospettarne, entro lo schema “nuovi” contro “vecchi”, di più numerose, variegate e ampie. Facile cascarci, perché solo gli addetti si districano nella materia: che ne sapevamo noi negli anni ’70 dei problemi delle frequenze, della impossibilità di sopravvivenza economica dello stormo di “tv libere”, dell’inevitabilità che qualcuno se le pappasse senza una legislazione che lo impedisse (e che fu impedita)?.
Applicando all’oggi quell’insegnamento, non abbiamo dubbi che chi va cianciando di libertà del web, intendendo la pratica di uploadare gratis la roba altrui (audiovisivi, musica, articoli etc.) per accumulare click e incassare pubblicità, o la sa fin troppo lunga o non vede al di là del proprio naso. Rendendo grazie al Parlamento di Strasburgo se stavolta, meglio tardi che mai, non verremo presi per il naso.

Stefano Balassone