Il senso della Commissione di Vigilanza per il pluralismo

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La Commissione Parlamentare di Vigilanza si è riunita ieri e, a quanto leggiamo, non ha mancato di dedicarsi all’unico tema del quale sia attrezzata a parlare: il pluralismo, inteso come ripartizione del capitale “visibilità” fra maggioranza e opposizione.

Per fornire carburante a questo tipo di dibattito, sono decenni che la Rai commissiona rilevazioni “cronometro alla mano”. Così, tradotte in statistiche, le fisime dei commissari si vestono da scienza, e offrono una miniera di cifre e cifrette che gli uni e gli altri possono schierare in un gioco delle parti che più rituale e scontato non potrebbe essere.

Ma forse quei valorosi membri del Parlamento si accapigliano sul tema sbagliato, perché il vero ruolo di chi mette su telegiornali e talk show non sta nel calibrare le apparizioni dell’oppositore rispetto al governativo. Se nell’orientare l’attenzione e il suffragio elettorale degli spettatori questa fosse una leva davvero efficace, tutte le Rai del passato, con i vertici nominati dalle maggioranze di turno, non avrebbero assistito all’immancabile sconfitta della parte di cui si suppone curassero gli interessi.

Come Berlusconi, che pure è arrivato a controllare insieme Rai e Mediaset (in particolare dal 2001 al 2006), e allo scadere della legislatura è finito in minoranza. E come il PD che si è inabissato alle ultime elezioni nonostante che la Rai non gli fosse certo ostile. Insomma, il consenso ai poli politici è una variabile che non dipende da quanto li vediamo esposti in tv. Saremmo perfino tentati di dire: anzi!

E quale è dunque il “vantaggio comunicativo” che una rete di fiduciari sparsi nella tv può perseguire? Per quanto ne capiamo, quel che conta è la calibratura della “visibilità” nell’ambito dello stesso partito o movimento. Berlusconi, per lunghi anni, si è sovraesposto e ha sottoesposto i suoi vassalli e valvassori, e così – e non soltanto tenendo i cordoni della borsa di Forza Italia e successive variazioni- ha creato l’Italia del “meno male che Silvio c’è”.

In modo più naif qualcosa di simile è stato variamente perseguito dal lato opposto, al punto che forse Bersani e soci se ne andarono per gestire le proprie comparsate e non farle amministrare dall’ufficio comunicazione del PD di Renzi. Da ultimo, é sotto gli occhi di tutti come la soap Di Maio-Salvini sia funzionale a identificare le sorti dei rispettivi movimenti con quelle delle loro stesse persone.

Insomma, se l’amministrazione della visibilità “dei tuoi” è la sostanziale funzione che i vertici politici impongono ai media, potremmo avere la Rai più equilibrata e pluralista del mondo riguardo al rapporto fra le sigle, ma ritrovarci egualmente in un sistema mediatico sostanzialmente servile nei confronti di visioni autocratiche.
Così è, se vi pare. E di questo semmai meriterebbe discorrere.

Stefano Balassone
Già nel cda Rai e vicedirettore di Rai3