«Sono adottivo dei Castelli Romani, vivo sotto Frascati, ma le mie origini sono venete. I miei primi passi, però, li ho mossi nel panorama internazionale grazie alle tradizioni della cucina dei Castelli».
A parlare è il noto chef Renato Bernardi, che abbiamo potuto apprezzare in tantissime trasmissioni televisive prima in Rai e in questo periodo su Retequattro nel programma “Parola di pollice verde” con Luca e Daniela Sardella. Il cuoco, come ama definirsi, che cura l’alimentazione dei bambini – dirige importanti centri di cottura dove vengono preparati i pasti mensa per le scuole – e predilige l’utilizzo di prodotti tipici locali.
Lei ha cominciato da giovanissimo ad amare la cucina?
«Fin da piccolo dicevo che avrei fatto il cuoco o il falegname. Come dico io “mi sono materializzato in cucina”, è un luogo particolare, che ti butta fuori da solo se non lo ami. Il mio lavoro parte dalla cucina, uno chef non nasce in televisione. Questo è un mestiere fatto di sacrifici, di tante ore di lavoro, per questo deve piacere stare in cucina. Puoi far da mangiare per le mense, per gli ospedali, per il Papa, per i carcerati o il presidente della Repubblica o semplicemente per la tua famiglia, o ancora per un grande albergo, ma se non ami quello che fai non riesci. Devi tradurre nel piatto quello che pensi, e quello che pensi deve piacere nel senso del gusto, è lì che esce fuori il cuoco, quello vero, ma non per farsi dire che è bravo, ma perchè ha delle responsabilità. Se cucini con amore vinci sempre, è il gesto più facile, che muove la leva e che racconta la tua cucina».
La cucina è arte?
«Mi piace definirmi artigiano e non artista, però, perchè l’arte è qualcosa di lontano, anche se poi ognuno di noi esprime una personalità o traduce emozioni in un piatto. L’estro fa parte dell’arredamento del cuoco, come la creatività, ma in questo mestiere serve conoscenza e coscienza. Il cuoco non può definirsi solo artista. Lo studio è necessario. La ricetta è composta da più ingredienti, ma a differenza dall’artista che può fare cose anche incomprensibili, il cibo non può non essere comprensibile alle persone, deve essere chiaro il messaggio da far passare, che sia di natura religioso, fashion o salutistico. Deve piacere ed essere gustoso».
Lei utilizza i prodotti locali, quali sono quelli doc dei Castelli Romani?
«Ad esempio l’olio extra vergine di oliva di Frascati, che spesso è stato premiato con i massimi punteggi. Gli oli di questo territorio hanno tenuto testa a quelli umbri. In Italia, ad esclusione della Valle d’Aosta, tutte le regione d’Italia producono olio, e quello dei Castelli è molto apprezzato. Tra gli altri prodotti ci sono il broccolo romanesco di Albano, le cicorie e altre pietanze vegetali ma anche legumi. Insomma tanti alimenti che fanno parte della dieta mediterranea, che attenzione non esclude del tutto la carne, ma ne limita il consumo. Anche le erbe aromatiche dei Castelli sono famose, io ho fatto dei ravioli di borragine, cotti al vapore con tecniche cinesi apprezzatissimi all’estero. Ci sono poi insalate spontanee, tantissimo finocchietto. La carne va consumata ma non in maniera eccessiva, la dieta mediterranea predilige quella bianca, e qui ai Castelli ci sono ancora i pollai, allevamenti di conigli, una carne che forse pochi sanno è a basso contenuto di sodio».
Tema delicato quello dei pasti nelle mense scolastiche. Ci racconta la sua esperienza?
«A Marino sono a capo di un’organizzazione che produce 2500 pasti al giorno. Devo dire che l’affiancamento con il professor Migliaccio, presidente della Società italiana di Scienze dell’alimentazione, mi ha portato a leggere tutto da un altro punto di vista. Facciamo corsi di educazione alimentare e nelle mense sto realizzando menù che “dialogano” con altri paesi. Abbiamo impiegato ad esempio le spezie per ridurre l’utilizzo del sale, specie quello nascosto. Così per rendere sapide alcune pietanze e bilanciare i grassi mettiamo alcune spezie, che hanno ottime proprietà, e in questo modo si fanno dialogare i cibi che vengono da paesi lontani. Si fa cultura, si dà ai bambini la possibilità di conoscere ma si fa anche prevenzione per evitare alcune patologie. I bambini di oggi saranno gli adulti di domani, per me è fondamentale capire le abitudini, le intolleranze, le problematiche a cui si andrà incontro, ad esempio anche le scelte che si faranno per la religione o per le malattie. È un dovere fare educazione alimentare, è una cucina faticosa, ma indispensabile. Io ho inserito nella loro dieta pasta integrale, farro e orzo, oggi i bambini mangiano tutto. Ho sopra di me un dirigente che mi permette questa attenzione al cibo, alla qualità e alla differenziazione. Sto preparando un libro con Adriana Volpe “Pensato dai grandi consumato dai piccoli”. Vi faccio un esempio: se ai bambini piace il croccante, perchè fare solo panature fritte e non usare frutta secca che ha tante vitamine? Una ricetta può essere la platessa in crosta di mandorla. Io ho inserito nei menù anche diversi cereali e la zucca. Ci sono tanti genitori che sono vegetariani e vegani, per cui comprendono bene queste scelte. I bimbi devono assaggiare gli alimenti e io cerco di andare incontro alle esigenze di tutti».
Come si è trovato a lavorare in tv?
«La televisione è un veicolo diretto, è un mezzo che arriva in profondità, e io lo uso a beneficio di una divulgazione di sana alimentazione. Devo dire grazie alla tv e a quello che mi permette di fare. Prima ero in Rai e affiancavo il prof. Migliaccio, qui c’era un profilo più scientifco e per me è stata una esperienza importante, ora invece con Sardella siamo orientati più alla ricerca dell’eccellenza, eccellenza locale. La tv innesca una serie di attività e di eventi a cui sono invitato, è uno strumento per esprimere il mio pensiero, mi piace raccontare come interpreto io la cucina. Noi siamo cuochi professionisti, ma non dobbiamo insegnare niente a nessuno, dobbiamo solo limitarci a non rovinare quello che ci viene donato dalla natura, dei Castelli e dell’Italia in generale».
Lei ora farà un format davvero particolare, uno show-cooking a teatro. Ci spiga cos’è questo “Cooking Theatre Experience”?
«Vado nella mia terra d’origine, nel padovano, nella terra che mi racconta, dove ho passato momenti belli, io sono un’amante di Venezia. La cucina diventa teatro, e questa è una bella fortuna. È la chiave di accesso di tutti i luoghi, con il mio regista uniamo metodo e creatività. Le persone diventano protagoniste, e io mostro come la cucina unisce anche chi non si conosce, le persone di qualsiasi estrazione sociale, razza, o carattere dopo questa esperienza diventano amiche. Noi le mettiamo insieme in squadre, loro devono realizzare il cibo, e mentre lo fanno si raccontano, si esprimono con naturalezza. Il teatro è lo strumento gioviale per far parlare le persone attraverso la cucina, per farle sciogliere, per metterle a nudo, gli dai la libertà di esprimersi. Così si crea contaminazione, di cibo, di tecniche, di persone e la grande innovazione alla fine sta nella semplicità».