Fin dal giorno della sua presentazione l'IBM rese chiari i termini della rivoluzione che, da lì a poco, avrebbe accompagnato l'universo informatico globale. ''Si tratta del computer per qualsiasi occasione e per chiunque, per la casa, l'ufficio o l'università''. Era il 12 agosto del 1981, New York, Waldorf Astoria Hotel. E al mondo veniva presentato il primo personal computer della storia, il PC IBM. Un prodotto che, sebbene non disponesse di funzionalità e prestazioni superiori a quelli della concorrenza, anzi esattamente il contrario, ha tutt'oggi il merito di essere stata la ''macchina'' che rinnovò, prima di tutto, il linguaggio comune di milioni di persone.
Big Blue comprese fin da subito che, per prendersi il mercato internazionale della tecnologia, sarebbe bastato un acronimo che anche un bambino sarebbe riuscito a pronunciare. Non più personal computer, ma PC. Non più il tecnicismo coniato qualche anno prima, ma un'etichetta da appiccicare su ogni dispositivo pronto ad entrare nelle case di tutto il mondo. Seguita poi, ovviamente, dal marchio di fabbrica che ne avrebbe marcato l'identità, e una sigla in quattro cifre, 5150, per definire l'unità di elaborazione centrale dell'hardware.
Con largo anticipo, sicuramente anche nei confronti del suo competitor più grande, la Apple, e non meno del suo profeta, Steve Jobs, l'IBM intuì che quel nome tipicamente nerd avrebbe in breve tempo ritratto la dimensione sociale di un culto ancora ricercato nella collettività, ma già espressamente geek. Presentando al pubblico il suo gioiello, l'allora vicepresidente della compagnia, C. B. Rogers, senza mezzi termini disse di ''credere che la performance, l'affidabilità e la comodità d'uso'' del PC IBM lo avrebbero reso ''il più avanzato e conveniente personal computer'' in circolazione. Non si sbagliava. Nel primo anno furono venduti 200.000 dispositivi. A confronto, lo storico Sinclair ZX80, lodevole di aver segnato il passaggio dei computer dal mondo hobbistico a quello dell'elettronica di consumo, vendette 70.000 pezzi.
Il successo fu tale che pochi mesi dopo il lancio Big Blue produsse dei cloni, i famosi 'PC IBM compatibile'. Ovvero dei computer simili ai modelli originali creati da IBM basati sull'architettura x86 di Intel che, per essere compatibili tra loro, seguivano una serie di disposizioni sui formati d'interfaccia, bus, memorie nel design e delle schede madri. E ad Armonk, si cominciavano a contare i profitti di una produzione che velocemente si trasferiva su scala industriale. In questo senso, però, l'IBM arrivò seconda, se non terza, sfiorando di poco il primato. Perchè già nel 1977 con la realizzazione dell'Apple II, il primo device per il quale fu usata per estesa l'espressione 'personal computer', Cupertino aveva già cominciato a tirare le somme di un successo economicamente globale. Con ogni probabilità ispirandosi a due prodotti tutti italiani: la Perottina dell'Olivetti e l' MD 800, ancora oggi ricordato come il primo microcomputer con tutte le funzioni tipiche del pc, messo a punto nel 1975 da due giovani ingegneri di Torino.
Per l'IBM, grazie alla rapida diffusione che raggiunse il suo personal computer, resta il merito di aver introdotto nella terminologia comune quello che in quegli anni appariva solo come un complicato neologismo tecnico. La novità di poter reperire i pezzi di ricambio facilmente sul mercato, l'architettura banalmente semplice del dispositivo e il prezzo accessibile (1.565 dollari), affidarono da subito al PC IBM l'esclusiva dell'uso intimo e domestico. Una rivoluzione, che da lì in avanti avrebbe aperto una nuova era. Per gli utili dell'International Business Machines Corporation e per il settore dell'elettronica da calcolo. In grado di far dimenticare al pubblico, forse, anche le pagine oscure del sistema Hollerith e dell'intesa con il Terzo Reich siglata qualche decina di anni prima, quando il colosso industriale americano si spese al fianco del regime nazista in un software in grado di ''automatizzare'' la deportazione degli ebrei nell'Europa occupata. (asca)