Comune di Roma, il no al salario accessorio imbarazza il Pd

La bocciatura del referendum da parte del 60 per cento dei dipendenti dà un segno forte al partito che ha sposato le posizioni di Ignazio Marino

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Comune di Roma, salario accessorio:

Nella tarda serata di ieri sono stati resi noti i risultati del referendum sull’accordo per il salario accessorio per i 24.000 dipendenti comunali firmato da Cgil e Cisl ma che vedeva l’opposizione della Uil, Usb e di altri sindacati della galassia degli autonomi. Si sono recati al voto il 60% degli interessati e di essi il 60% ha bocciato l’accordo probabilmente rinunciando a circa 80 euro mensili pro capite. Da quel momento sui social network si è scatenata contro i comunales la reazione dell’establishment del Pd (quello degli eletti o degli assunti più vicini alla Giunta) che ormai ha scelto questa forma di discussione a scapito delle già poco frequentate assemblee degli 8.000 iscritti sulla carta. Questi esponenti di un partito che il professor Barca, agli esordi della sua ricerca politico/sociologica, ha definito in parte “cattivo” e “pericoloso”,  e che oltre che inveire contro questa scelta referendaria (tutto sommato democratica) hanno finto di scordare che proprio i comunales e il sindacato (con tutti i limiti del corporativismo consociativo) sono sempre stati un bacino di voti e di consensi per la sinistra.

IL PD E LA LINEA DI IGNAZIO MARINO – Hanno così sposato acriticamente la linea di efficientismo che quell’accordo pareva garantire solo nei proclami di Ignazio Marino (peraltro assente da Roma per un improcrastinabile convegno sul clima a Parigi) senza chiedersi se a questo atto di lesa maestà (oltre all’indubbia componente di conservazione del passato) corrisponda anche un voto di sfiducia a questa amministrazione e alla classe politica che governa la città. L’establishment del Pd romano si allinea ‘coraggiosamente’ con le posizioni di un Governo che ormai considera i sindacati ciarpame di altri tempi e chiude gli occhi di fronte ad una situazione resa ancor più pericolosa dalla ‘liquefazione’ (termine ormai in voga) del partito. Un Pd, sia pure ingessato dalle fazioni ormai afone, sommerso non solo dalle conseguenze di ‘mafia capitale’ (sulle quali solo i tribunali sanciranno condanne o assoluzioni) ma anche dalla incapacità di dialogo con una cittadinanza per lo più indifferente, se non ostile.

LE CONSEGUENZE DELL’ACCORDO – Nè sarà il commissariamento di Matteo Orfini, interprete fedele della linea renziana, nè il “repechage” di illustri esponenti del passato a far uscire questo partito da un empasse rovinoso quale quello di Ostia o ad allontanare il pericolo di altri avvisi di garanzia come sotto sotto auspicato da un sindaco che sulla legalità gioca la sua sopravvivenza. Cosa comporterà il mancato accordo si chiarirà in seguito: forse ben poco rispetto alla farraginosità di una macchina amministrativa che produce contratti di lavoro con decine di pagine, fatto salvo qualche imbellettamento sulla produttività e l’orario di lavoro, Ma prima di strillare contro la scellerata scelta della maggioranza dei lavoratori sarebbe il caso di trarne una lezione politica. Proprio di quella politica che ormai sta lasciando il campo a inquirenti e magistrati perché non ha la forza di riabilitarsi anche con una feroce autocritica.

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