Un clima sciroccoso, umido, pesante, inconsueto a Roma nelle prima metà di giugno che sembra gravare venerdì mattina con una cappa, nonostante l’aria condizionata, anche sull’Aula Giulio Cesare (il cui restauro ha portato in carcere imprenditori e funzionari) dove si trascinavano i lavori del Consiglio che a stento raggiunge il numero legale. Consiglieri, anche di opposizione, stanchi e demotivati che attendono lo sviluppo degli eventi con il timore di venir da un momento all’altro mandati a casa. Un timore che, giù giù per li rami, coinvolge addetti stampa e assunti a tempo negli staff del potere capitolino.
Questi gli effetti visibili e palpabili delle inchieste del procuratore Pignatone delle quali molti paventano ulteriori sviluppi, altri arresti forse. Fort Apache è assediato, anche se Ignazio Marino leva le dita in segno di vittoria e si avvolge dopo due anni di governo nella salvifica bandiera della legalità che i procuratori hanno levato ben prima di lui con una indagine iniziata quasi tre anni fa. Inconsapevole, il sindaco, di una sconfitta devastante non solo per il Pd (che lui non ha mai siamo) quale forza di Governo, ma della democrazia stessa, come testimonia il calo progressivo dei cittadini votanti che nella Capitale è in caduta libera. Intanto il giovane e loquace commissario del Pd Matteo Orfini, con spregiudicatezza e piglio tutto renziano, si accinge a giocare sulla playstation della caccia ai cattivi, dei tagli dei circoli, della “purga” come si definiva nei partiti comunisti in era preistorica.
Come se il Pd romano non fosse malato anche prima di Alemanno e le correnti e le fazioni non avessero giocato un ruolo storico che comunque mai culminò nel disastro attuale. Sullo sfondo una città distratta, nella migliore delle ipotesi, disamorata di fronte ad una incapacità di governo che ne logora i pezzi e ne fa decadere le bellezze. Poco importa se il Giubileo verrà commissariato dal Prefetto Gabrielli oppure se questi si limiterà ad affiancare il sindaco perché già molti in questo Giubileo vedono più i rischi del caos che le opportunità, proprio quando Roma sarà sotto gli occhi del mondo.
Mafia Capitale ha demolito una intera classe dirigente politica indipendentemente dal peso delle responsabilità individuali, e diventa difficile credere che un assessore alla legalità qual è Sabella minacci querele a nome del Comune perché la incolpevole segretaria del sindaco incappa in una conversazione telefonica intercettata. Nè danno lustro al Pd le accuse di Orfini che vede in chiunque attacchi giunta e sindaco gli amici delle mafie che certamente a Roma non sono solo quella di Carminati&Buzzi. Il governo fa quadrato attorno al sindaco accomunato a Zingaretti, come se non distinguere fra l’inquinamento del Comune e quello marginale della Regione rinsaldasse chissà quale immagine della sinistra di governo.
Ma sulla immagine della Capitale gioca una partita rischiosa anche Matteo Renzi che non deve rendere conto solo al suo partito ma ad una Nazione, a un popolo che guarda alla sua Capitale con sospetto e non è certo disponibile a pagare tutto il prezzo dei baratri finanziari, come vorrebbe Marino nel suo continuo batter cassa, semplicemente perché è la Capitale. Roma è ormai un problema nazionale nonostante la corruzione non sia paragonabile nelle sue dimensioni a quanto rivelato sul Mose di Venezia o sull’Expo.
Il fatto che essa alligni in quello che dovrebbe essere il biglietto da visita, la vetrina d’Italia e della futura Area Metropolitana (a rischio anch’essa in caso di commissariamento) sgomenta però l’opinione pubblica. Che Marino resti o se ne vada, come vorrebbero oggi l’Espresso e settori significativi dei ‘poteri forti’, tutto sommato non è poi così rilevante agli occhi della gente che alle indagini delle Procure ci ha fatto pure il callo. Semmai c’è da capire come e quando la Capitale si risolleverà, chi avrà la capacità di governare le sue piaghe, chi sarà in grado di ricostruire un tessuto democratico lacerato. Perché la rigenerazione di Roma significa la rigenerazione di tutto il Pd che non basta rottamare in funzione di un capo, ma che deve recuperare un’etica (berlingueriana?) dove la politica non è solo House of cards.
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