«Ringrazio l’autorità giudiziaria per avermi voluto ascoltare. Non sono iscritto nel registro degli indagati, sono entrato in Procura da persona informata sui fatti e sono uscito come persona informata sui fatti.» Questa lapidaria dichiarazione del sindaco Ignazio Marino nel corso della conferenza stampa di poche ore fa potrebbe aprire un nuovo capitolo in tutta la vicenda delle sue dimissioni. Perché fa cadere, nella sostanza, le accuse nei suoi confronti. Sempre che la procura non decida altrimenti in seguito. Il fatto che Marino si sia recato dai magistrati a fornire la sua versione dei fatti relativi agli scontrini per cene di rappresentanza rappresenta un tassello della sua strategia, non tanto per evitare le dimissioni comunque confermate per il 2 novembre (giorno dei morti), ma per uscire quantomeno a testa alta da tutta questa imbarazzante vicenda.
Lo confermerebbe la dichiarazione del sindaco che ha deciso di convocare la conferenza stampa spiegando di aver firmato la lettera di dimissioni il 12 scorso «in seguito ad alcuni esposti presentati delle forze politiche, in particolare M5S e An-Fdi.» Ragione per la quale voleva presentarsi dimissionario in Procura che lo ha ascoltato. Una dichiarazione che finisce per spuntare le armi di chi aveva colto l’occasione degli scontrini per sfiduciare tutta la sua sindacatura. Perché qui sta il nodo tutto politico della faccenda, una sfiducia che è maturata inanellando tutta una serie di infortuni che risalgono addirittura al parcheggio della sua Panda rossa, alla sua assenza durante i funerali di un esponente dei Casamonica, sino al suo periodo di ferie all’estero proprio in coincidenza con la discussione sull’eventuale commissariamento della Capitale per mafia.
E allora chi ha sfiduciato Marino? Certo, una campagna mediatica ad alta intensità contro di lui, i sondaggi sfavorevoli le dimissioni dell’assessore al bilancio e del sen. Esposito alla mobilità, la volontà del commissario Orfini, ma da un punto di vista formale tutto ciò è era sufficiente a sfiduciare un sindaco? Qui il pasticcio l’ha fatto il commissario del Pd romano Matteo Orfini che sino a poche settimane fa aveva pensato di mantenere in sella Ignazio con alcuni innesti, quali l’on Causi ed il senatore Esposito per guadagnare tempo sino alla fine del Giubileo per recuperare consensi al Pd negati dai sondaggi ed eventualmente andare alle urne nel 2017. L’operazione è saltata perché, nella sostanza, il mandante dell’operazione di dimissionamento è il presidente del Consiglio Renzi, che ora Ignazio vuole esca allo scoperto assumendosi la responsabilità dei problemi che Roma avrà con il commissariamento in corso di Giubileo.
Eccolo allora l’altro tassello della sua strategia, andare in consiglio e lì farsi formalmente sfiduciare. «Se ho ancora una maggioranza in Assemblea capitolina?» ha detto, aggiungendo «Fa parte delle verifiche che bisognerà fare.» Un “bisognerà” che lascia pochi dubbi sulle sue intenzioni. Un problema in più per i consiglieri del Pd che dovranno adeguarsi alle direttive del partito, ma sotto sotto sono consapevoli che dopo Ignazio per loro non c’è futuro. E poi un partito e una parte di opinione pubblica minoritaria si riscoprono supporters del sindaco. Esclusa la possibilità che il Nazareno e Palazzo Chigi possano tornare indietro sulla decisione, salvo lo sputtanamento di chi ha imbastito l’operazione, al Pd si aprono solo due strade: la prima (annunciata ufficialmente) di commissariare il Comune predisponendo le primarie che indichino un candidato “potabile” per il Campidoglio, rassegnandosi ad una sconfitta data per certa, almeno dai sondaggi. Ma vi sarebbe anche un’altra via, ovvero quella di rinviare le lezioni al dopo Giubileo e quindi andare a votare nei primi mesi del 2017 quando l’onda lunga del giudizio popolare verrebbe smorzata da un efficiente commissariamento di alto livello.
Ci sbaglieremo, ma il fatto che il prefetto Gabrielli nei giorni scorsi abbia tirato in ballo l’Isis fra i pericoli terroristici che potrebbero incombere sulla Roma giubilare, schiude la porta a quelle ragioni superiori di ordine pubblico che giustificherebbero il rinvio della competizione. Una decisione che spetterebbe a quello stesso governo che non ha voluto commissariare Roma in luglio. Nel frattempo, come prevedibile, Marino si difende consapevole che il partito di chi l’ha messo all’angolo oggi, a Roma è alla frutta. Forse sta contrattando una sua onorevole buonuscita in termini politici. In fondo lui oggi non ha niente da perdere fuorché il suo onore, senza il quale non ha un futuro politico.
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