Sono stati 50.000 gli elettori ed i militanti che hanno (si fa per dire) affollato i gazebo del Pd dove si sono svolte le primarie che hanno incoronato Fabio Melilli da Rieti segretario regionale di quel partito. Circa 70.000 in meno rispetto a quelle primarie che elessero il suo predecessore Enrico Gasbarra. A Roma gli elettori sarebbero stati 12.000 poco più degli iscritti. L’unico che oggi si consola con l’aglietto è l’influente Goffredo Bettini che ormai da due anni imperversa mettendo, più o meno a ragione, il suo imprinting su Zingaretti prima, Marino poi e sul segretario cittadino Cosentino sino al suo endorsement allo stesso Melilli.
LA BASE DEL PARTITO – Certamente quella che fu la base del partito è sconcertata anche dalle ultime vicende politiche per la presidenza del consiglio nonostante il viterbese e dalemiano ex cassiere del Pd Ugo Sposetti, con una intervista a Repubblica, minimizzi questo disagio attribuendolo ad una carenza di comunicazione fra il vertice e la base del partito. Ma a Roma, in particolare, la pesantezza della situazione si avverte per una base sfibrata dalle primarie a raffica e da un elettorato deluso che ha votato solo per il 50% alle comunali.
LE PRIMARIE DI IGNAZIO – Eppure qualcuno dell’Inner circle del sindaco rimane convinto che Ignazio abbia vinto le primarie e le elezioni poi a dispetto di un partito che non gli era favorevole. Balle spaziali per giustificare le difficoltà di un sindaco dalle scarse performance pratiche e dai tanti meravigliosi annunci. E’ noto che il sindaco non stima i partiti e tanto meno i consiglieri della sua maggioranza che lo contraccambiano spargendo qualche veleno. Come quello che dava per spacciato il capo ufficio stampa del sindaco Marco Girella che si è affrettato personalmente a smentire la notizia pubblicata da questa testata, per di più precisando che il suo guadagno netto è di 57.000 euro annui e non 170.000 come avevamo pubblicato. Ora il sindaco è a Bruxelles per chiedere fondi alle grandi città d’Europa, ma quando torna dovrà affrontare una situazione da cardiopalma. Intanto, per quel decreto Salva Roma pericolosamente a ridosso della scadenza e da quale dovrebbero venire alla Capitale le risorse finanziarie per chiudere il bilancio 2014 ad aprile e non a gennaio/febbraio come Marino aveva promesso.
IL CASO LEGNINI – Grande mediatore di tutta l’operazione è il senatore Giovanni Legnini, amico di Ignazio, già sottosegretario alla presidenza del consiglio con Letta e che oggi sarebbe libero per dare una mano al chirurgo. Infatti le voci che volevano le imminenti dimissioni del’assessore al bilancio Daniela Morgante si dissolvono come neve al sole anche perché licenziare una magistrata in ruolo alla Corte dei Conti non sarebbe strato gran che opportuno, visto gli scassatissimi conti capitolini. Mentre più probabile è che l’amico Legnini, rimasto nel frattempo disoccupato, assuma la delega per i rapporti con il prossimo governo Renzi. Che Marino punti sulla benevolenza del nuovo Presidente del Consiglio che lui ha sempre sostenuto anche in tempi non sospetti, non v’è dubbio, ma i problemi nel Pd restano. Perché se i parlamentari romani sperano di conservare la poltrona sino al 2018 come ha adombrato l’ex sindaco do Firenze, il partito a Roma va lentamente estinguendosi sui territori mantenendo il suo peso in quel sistema clientelare di varie epoche che ha consentito la distribuzione di posti al Comune e alle municipalizzate.
IL VUOTO DEL PD – Un requiem per quella sinistra Romana un tempo particolarmente combattiva e radicata sui territori che oggi lascia un vuoto fra gli elettori. Un partito ormai ridotto ad una stanca macchina elettorale sfibrata da primarie e congressi dove più che la linea politica si sono giocate poltrone. Se questo vuoto pare favorire il sindaco marziano, restano le incognite di una maggioranza inattiva in Consiglio e poco coinvolta nelle decisioni di Ignazio se non nei ludi cartacei dei comunicati stampa a tambur battente su tutto lo scibile capitolino. Tanto che ormai qualche osservatore attribuisce la vera forza del sindaco più alla inconsistenza della opposizione che alla forza della sua maggioranza che gli garantisce in Consiglio appena un margine di 5 voti. Un margine che pesa come una spada di Damocle sulla testa di Marino.
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