Il quesito è prematuro, ma vien spontaneo chiedersi se la travolgente vittoria di Matteo Renzi sarà la rinascita del Pd o il suo definitivo affossamento come “forma-partito”. Stretto ormai fra i due populismi mediatici di Berlusconi e Grillo, il Pd vede prevalere un nuovo modo di far politica che si adegua ai tempi della “politica sbrigativa”, fatta più di effetti che di contenuti. Solo che Matteo il partito (così com’è) se lo prende tutto e senza far prigionieri a quanto pare. Eppure la forza del Pd, che unico in Europa si inventa le primarie su tutto e tutti, si regge ancora sui suoi iscritti, sulle sue lobbies, i suoi parlamentari, il sindacato e le cooperative.
Un partito rissosamente riformista e talora consociativo, ma con le sue regole, i suoi congressi, i suoi organismi dirigenti e i suoi apparati che le primarie hanno spazzato via con l’appello al popolo sovrano degli elettori. Ora si dà il caso che questa tradizionale forma partito, radicata nei territori, sopravviva in buona salute soprattutto a Roma dove il congresso aveva incoronato Cuperlo al nazionale e Cosentino alla segreteria cittadina. Ma le primarie ribaltano il risultato d’apparato ed i benzinai esigono posti di riguardo al tavolo della direzione che Cosentino aveva saggiamente congelato in attesa delle primarie. Anche Gentiloni (Renziano doc) si risveglia dalla sconfitta delle primarie di primavera per rivendicare un cambio di passo senza mettere in discussione il sindaco Marino che ha ormai allontanato qualsiasi ipotesi di rimpasto di giunta. A ragion veduta.
Che necessità ha di riequilibrare i rapporti con un partito la cui sorte è legata alla leadership di Renzi che il sindaco ha sostenuto in tempi non sospetti? Ora i vincitori della prima e dell’ultima ora vogliono conquistare pezzi importanti della vecchia macchina di potere del Pd romano. Una macchina che non ha prodotto solo clientele ma è fatta ancora da gente che mette in piedi gazebo, organizza feste e fa un tesseramento che le primarie rendono inutile. Certo, Cosentino è saggio e manovriero. Smusserà, concederà, medierà, ma c’è rischio che sotto la superficie, dove galleggiano i rottami della tradizione dalemiana, bersaniana e bettiniana, popolare ecc., si apra una sorda lotta che non è solo di potere ma per molti di sopravvivenza. Il fuoco potrebbe riaccendersi a marzo quando si dovrà eleggere il segretario regionale con le primarie aperte, nella regione governata da Nicola Zingaretti legittimato dal consenso elettorale.
L’attuale segretario regionale Enrico Gasbarra vorrebbe riproporsi facendo dimenticare il suo tentativo di prendere le distanze da un Pd che dopo le politiche lo aveva deluso. Tocca vedere se il Nazareno (o altra sede poco importa) appena espugnato, non avanzerà il nome di un trentenne rampante della new age renziana. In questa contraddizione fra voto di popolo e struttura di governo e di potere proliferano i germi di una possibile separazione consensuale. Dove l’indiscussa primazia di Matteo leader di governo viene sostenuta non più dal Pd coalizzato con altri, ma da una federazione di forze politiche, un po’ come era prima di Veltroni. In fondo le separazioni consensuali non sono un gran male. Chi si tiene la casa o la cassa e chi si avvia ad una nuova vita libero da logori legami. Come al solito, è solo problema di convenienze e non più di affetti.
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