Sergio Chiamparino, classe 1948 non è proprio un giovane di primo pelo, ma vanta un curriculum di tutto rispetto. Ottimo sindaco di Torino dal 2001 sino a quando cede il testimone al conterraneo Fassino nel 2012. Attento a cogliere i frutti di immagine delle Olimpiadi Invernali nella sua città, viene parcheggiato per un po’ di tempo alla presidenza della Compagnia di san Paolo di Torino tanto per smentire l’intreccio fra politica e banche anche nelle “virtuose” regioni del Nord ovest. Poi Sergio vince facile le regionali del maggio scorso contro il leghista Cota e diviene governatore del Piemonte. Quanto basta a Renzi per nominarlo (non direttamente, per carità) presidente della Conferenza Stato Regioni dopo le dimissioni del bolognese Vasco Errani per una condanna che in altre parti di questo strano Paese gli sarebbe valso se non il plauso, almeno una compiacente tolleranza. Questa la notizia che suggella i meriti di Chiamparino: sindaco più amato d’Italia dopo (bien sur) l’allora major di Firenze Matteo. Infine (e non è poco) presidente per poco della potente lobby dei comuni italiani (Anci) ai cui vertici siede oggi Piero Fassino in una sorta di staffetta tutta sabauda.
I COMPETITOR – A ben vedere c’erano altri due competitor per la prestigiosa presidenza della Conferenza Stato Regioni. Uno, il leghista Maroni, governatore della Lombardia troppo impicciato con l’incombente Expo milanese e l’altro, Nicola Zingaretti, governatore della nostra regione. Lui, Zingaretti, un pensierino ce l’aveva anche fatto, se non altro per i meriti acquisiti nel risistemare i conti del Lazio dopo la disastrosa parentesi di destra. E poi, classe 1965, poteva ben rientrare nei parametri di Matteo Renzi che tutto vuol svecchiare e rottamare avvalendosi anche di avvenenti hostess di governo. Non che Nicola sia brutto, per carità, anzi è pure simpatico, non come Matteo, ma giù di lì.
LA BOCCIATURA DI ZINGARETTI – Allora qualcosa deve essere andato storto. O meglio, qualcosa di Nicola deve aver contrariato lo spumeggiante presidente del consiglio. Tiriamo a indovinare. Forse Zingaretti è ancora uomo di partito (come tutti quelli che stanno al potere) ma di un partito che non c’è più, di quel Pd che Matteo ha prima scalato e poi riplasmato a sua immagine e somiglianza. In effetti, l’elezione del governatore del Lazio avviene con la striminzita vittoria di Bersani alle politiche di due anni fa. Un Bersani che il governatore del Lazio ha lealmente sostenuto commettendo il fatale errore di schierarsi anche con lo sbiadito Cuperlo alle primarie che Renzi stravinse.
UNA POLITICA DA HOUSE OF CARDS – Qualcuno in verità nell’area dalemian/bersaniana e nella gauche piddina residuale (quelli che non vorrebbero morire democristiani) aveva intravisto in Nicola un competitor agguerrito per le primarie. Sicuramente non avrebbe vinto ma almeno poteva portare a casa quel 30 o 40% dei suffragi sufficiente a salvare le vestigia del partito che fu di Bersani, Veltroni e D’Alema dove i tesserati contavano ancora qualcosa. Ma a un Renzi che stravince alle europee non passa il vizio di sbarazzarsi di figure che possano fare un minimo di ombra al suo innegabile e vittorioso appeal. Alla presidenza delle regioni? Ma scherziamo! troppa visibilità, troppa immagine in un sistema politico che di immagine si alimenta e vive. Così il palese fastidio del conducator ha scoraggiato le timide avance del Pd locale già poco amato da Matteo per i suoi trascorsi bersaniani, e ammutolito il segretario regionale Melilli. Tant’è, Vae victis. Questa è la logica antica della politica da “House of Cards”, quella spietata serie televisiva americana che Matteo Iidica come modello ai suoi rampanti corifei.
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