Ognuno di noi nel sangue ha una passione, quella di Giovanni Raineri detto “Nanni”, classe 1976, ha la forma di un pallone ovale. Una passione che lo ha portato da Colleferro, sua città natale, a girare l’Italia e anche il mondo, e poi a passare dal ruolo di giocatore (mediano d’apertura o tre-quarti centro) a quello di allenatore, insomma dal campo alla panchina ma sempre con quella voglia di toccare con mano “fango e sudore”.
Come ha iniziato a giocare a rugby?
«Mia madre era la dirigente di una società di basket e tutte le settimane mi portava a vedere le partite, ogni volta però di una diversa disciplina sportiva. In pratica mi ha fatto conoscere tutti gli sport. Quindi il primo amore è stato proprio per lo sport in generale. Ma ho sempre ammirato i rugbisti, mi sembravano dei superuomini. Alle medie un mio compagno di scuola mi ha detto di andare con lui a giocare a rugby, e così allenamento dopo allenamento mi sono innamorato di questa disciplina».
Nella sua carriera di giocatore ha vinto uno scudetto con la Rugby Roma nella stagione 1999-2000 e uno con il Calvisano nel 2006, a quale è più legato?
«Sono una persona che si dedica al 100% al club dove gioca, per cui ho dei bellissimi ricordi in tutti i posti dove sono stato. Questi due scudetti sono molto differenti. Quello con la Roma non era preventivato, è arrivato a sorpresa dopo circa 51 anni che la capitale non ne vinceva uno, e poi è arrivato in una finale al Flaminio contro L’Aquila. Lo scudetto vinto con il Calvisano invece è arrivato in un anno in cui c’era una squadra molto solida, una delle migliori formazioni, e c’è stato tanto lavoro per tagliare quel traguardo».
Colleferro, Rugby Roma, Calvisano, Capitolina e anche tanta Nazionale, giovanile e poi prima squadra con l’esordio nel ’98 e un Sei Nazioni nel 2001. Cosa pensa del rugby della capitale con tre squadre in Eccellenza e cosa vorrebbe dire all’Italia impegnata in questo periodo nei Cariparma test match?
«E’ bello che ci siano tre squadre di Roma nel massimo campionato. Un derby romano mi sarebbe piaciuto giocarlo. Fiamme Oro e Lazio mi sembra stiano facendo un buon campionato, sono due belle squadre e hanno anche una discreta esperienza, ma forse è presto per parlare di uno scudetto. Invece agli azzurri voglio dire che devono giocarsi le loro chance a livello internazionale, perché ora siamo quasi alla pari, e qualche regalo possono farselo. Quando ero io in Nazionale il rugby che si giocava con i club nel campionato italiano era molto differente da quello che poi ci trovavamo di fronte a livello mondiale. Ora questo gap in parte è stato colmato sia perché alcuni giocatori sono in club stranieri, ma anche perché le grandi società italiane partecipano a campionati internazionali».
Il suo desiderio di fare l’allenatore si è avverato: è alla guida di un club importante come L’Aquila. Come va la stagione e che situazione ha trovato dopo il terremoto del 2009?
«Abbiamo iniziato il campionato con il piede giusto, ed era fondamentale dopo la retrocessione dello scorso anno del club. Io sono arrivato in estate con l’obiettivo di ripartire da capo con un nuovo gruppo dirigenziale, uno nuovo staff e una nuova squadra. Ho una bella rosa formata da 36 giocatori, un gruppo molto numeroso, motivato che ha il motto “Tutti utili e nessuno indispensabile”. Il gruppo è la nostra forza. I problemi sono tanti da affrontare, il terremoto è stato un duro colpo per questa città, e la situazione non è ancora tornata alla normalità sia dal punto di vista umano che impiantistico. C’è ancora tanto da cambiare, da ricostruire e la crisi economica non aiuta, anzi ricade sullo sport e su un club storico come L’Aquila che l’anno scorso in Eccellenza arrancava. Noi giochiamo al Fattori che è lo stadio di sempre, ma ci alleniamo a Paganica grazie all’immensa disponibilità di questa società, ma il problema è che non abbiamo un centro sportivo. Insomma serve una ricostruzione a 360° e L’Aquila è voluta ripartire nel rugby da un tecnico giovane e ambizioso. L’obiettivo? Prima di tutto vincere le partite, una alla volta. E’ tutto nuovo, credo sarà un anno di transizione, ci scopriremo un po’ alla volta».
Ma intanto L’Aquila lotta in testa alla classifica di serie A con la speranza di tornare presto in Eccellenza. Quanto è stata importante l’esperienza in Sudafrica?
«E’ stata un’avventura bellissima, sarei rimasto lì se non fosse arrivata la chiamata de L’Aquila, è un treno che non passa sempre. Per me è un onore allenare questo club storico. Però in Sudafrica tornerò presto, c’è una cultura rugbistica che in Italia non esiste. Il rugby lì è religione, e io volevo fare questo tipo di esperienza, ossia vivere in una nazione dove non c’è l’egemonia calcistica, ma il rugby è un po’ il pane quotidiano. Sono però anche molto legato a Colleferro, anche se ci ho giocato poco, ma quando torno mi sento sempre a casa».