Luca Carboni tra futuro e malinconia

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Luca e Samuele, un padre e un figlio mano nella mano. Sono di spalle, sembrano controsole. In realtà sono baciati dai suoi raggi, un po’ come quando diciamo che la pasta è scotta perchè in realtà l’abbiamo cotta fin troppo. Convenzioni, modi di dire: giochi di parole che Luca Carboni ha deciso di non fare col suo nuovo album. Ecco perché la scelta di un nome-non nome come “Senza Titolo”. «Volevo far parlare quell’immagine in copertina, un po’ come fanno i pittori concettuali. Lì c’è tutto il messaggio di questo disco: non mi sembra servissero altre specificazioni». Oggi dal Gran Teatro di via Tor di Quinto parte il tour invernale del cantautore bolognese, un giro d’Italia da Sud a Nord fatto di poche tappe e grandissime città, e nel quale spetta proprio alla Capitale il ruolo di apripista «perchè in fondo è come se fosse la mia seconda città, quella in cui ho vissuto più tempo al di fuori dell’Emilia».

Nel 2006 l’ultimo “Le band si sciolgono”, poi cinque  anni  di  silenzio  in  studio:  la  più classica delle pause di riflessione? Non è stata una scelta voluta. In realtà i lavori per il nuovo disco sono durati più del dovuto perché in mezzo c’è stato “Musiche ribelli”, un progetto che mi ha coinvolto sin da subito e che ha necessariamente prolungato i tempi di realizzazione dell’album.

Quello era un omaggio ai grandi cantautori italiani degli anni ’70, da Lolli a De Gregori, passando per Battiato… E poi Dalla, Jannacci, Guccini: artisti con i quali sono cresciuto e che mi sono sentito in dovere di omaggiare. E’ stato un viaggio davvero emozionante.

Da “Non finisce mica il mondo” (dove  finiscono le strade) a “Riccione-Alexader Platz”, che volge lo sguardo indietro, “Senza titolo” sembra essere invece un vero e proprio bignami della tua vita, sempre in bilico tra un ottimismo fiero per il futuro e quell’onnipresente malinconia per gli anni ormai passati. E’ vero, sono le mie due facce. Credo in un domani che possa essere migliore, ma non mi nego la possibilità di revisione. In “Riccione-Alexander Platz” prendo in esame tutta una generazione, quella di noi cinquantenni di oggi, che quando aveva vent’anni negli anni ’80 sembrava aprirsi a nuovi orizzonti e trascinare tutti con sè, ma che poi non ha inciso affatto. Molti di noi sono, per così dire, rimasti dentro le proprie case, chiusi: serrati.

Il Luca di questo album è però soprattutto il cantore delle piccole  cose, delle pieghe del privato  più  che  dei  rumori  del  pubblico.  Il tuo è un disco decisamente intimista, che indaga a fondo il sentimento tra genitori e figli. “Madre” è un pezzo autobiografico, profondo, uscito fuori da sé un giorno mentre avevo le mani sul piano. Mia mamma è scomparsa da poco e questo è stato un modo del tutto spontaneo per immaginare un nuovo incontro con lei. “Senza strade” è invece una storia più concettuale, quella del rapporto d’amore tra un padre ed un figlio ai giorni nostri.

In qualunque forma esso  sia,  l’amore è comunque il light motive della tua vita artistica. Tu sei cattolico e praticante: è la fede che ti ha aiutato a scoprire l’amore? La fede l’ho trovata sin da ragazzino, poi ovvio, nella vita ci sono momenti di maggiore e minore coinvolgimento. Anzi, direi che è proprio l’amore a poter aprire certe finestre sulla spiritualità.  

Nonostante l’intensità emotiva del tuo disco, i singoli che hai scelto di far uscire sono in realtà  decisamente  spensierati  e  leggeri. Pezzi  come  “fare  le  valigie”  e  “Cazzo  che bello l’amore”. La scelta delle canzoni traino è sempre piuttosto istintiva e risente delle mie sensazioni del momento. “Fare le valigie” ad esempio è un brano che usciva in estate, quando le atmosfere sono necessariamente più rilassate per tutti.  

A  tal  proposito  Eugenio Arcidiacono  di Famiglia  Cristiana  ha  elogiato  la  dimensione romantica  del  tuo  disco  criticando  però proprio  la decisione di pubblicare quei due singoli:  parlava di  un  appiattimento  discografico  alle  esigenze  radiofoniche,  parlava di una “ricerca della leggerezza a tutti i costi che porta a far sì che la musica sia sempre più scontata e banale”. Questo in effetti è un rischio che il mercato può correre. Sin dai primi album ho scelto personalmente i pezzi da far uscire, e sono sempre state canzoni a cui credevo fortemente. E non è detto che nei brani più leggeri non si ritrovi poi un richiamo ad una certa profondità d’animo.

“Le band si sciolgono”, Luca, proprio come i tuoi amati Rem lo scorso settembre… Sono molto affezionato alla band di Michael Stipe: li ho sempre ammirati e mi sono da sempre identificato in loro anche per come hanno cominciato: una digressione nel punk anni ’70 e ’80 per poi sviluppare uno stile più personale.  

Nel tuo disco c’è un brano, "Provincia d'Italia", che è un elogio ad un vivere comune, come accade fuori dalle metropoli. Una sorta di ritorno alle origini, di riscoperta della semplicità che anche Zucchero ha voluto  cantare nell’ultimo  “Chocabec”.  E  c’è  in  effetti  anche un percorso inverso che molta gente sta facendo  abbandonando  le  grandi  città.  Cosa sta succedendo? Ho lasciato Bologna da qualche tempo ed è la voglia di provare un’esperienza nuova a farmi prendere questa decisione. Oggi le ragioni che ti spingono a vivere lontano dalla città però sono tante e legate ad altrettanti fattori, come i prezzi, o più semplicemente il bisogno di tornare a vivere in una dimensione più umana. Certo è che fino a 30 anni fa i quartieri cittadini erano ancora molto simili alla vita di paese: ora però traffico, smog, stress di ogni tipo sono aumentati esponenzialmente.

Nel libretto che accompagna il cd c’è il testo di  una  sola  canzone,  “Non  finisce  mica  il mondo”. Il resto delle pagine sono pensieri, appunti, annotazioni da cui sono nati i tuoi brani.  Una  scelta  che  ricorda  molto  il  tuo libro “Canzoni&Confusioni”. Ogni album è figlio di un preciso momento storico nella vita di un artista. Mi piaceva l’idea di raccontare da cosa nascono i miei pezzi, da quali emozioni e da quali sentimenti. I testi, poi, quelli si possono trovare ovunque.

Qual’è dunque questo “preciso momento storico” che sta vivendo Luca Carboni? Nel libretto c’è una frase che lo identifica bene: “Da bambino non pensavo si potesse essere giovani per sempre”. In effetti mi ricordo che vedevo una differenza davvero incolmabile tra me e il mondo degli adulti. Oggi, a cinquant’anni, questa forbice si è invece ristretta di colpo, e mi trovo a dividermi tra il mio sentirmi ancora un bambino e la mia responsabilità di essere padre, e che mi porta ad essere più riflessivo: a cedere meno al protagonismo.

Anche se tu al protagonismo non hai mai ceduto  volentieri,  rimanendo  un  personaggio schivo  pur  nel  tuo  grandissimo  successo. Una sorta di Del Piero della musica. La smania può produrre risultati anche eclatanti, soprattutto nel breve periodo. Ma io non ho mai cercato la forza del momento, piuttosto preferisco lasciare un’impronta negli anni.

Stasera al tuo fianco sul palco ci sarà il cantautore ex Tiromancino Riccardo Sinigallia. Da cosa è nata questa collaborazione? Mi sono sempre piaciuti i dischi di Riccardo, anche nelle vesti di produttore. Un giorno è venuto a suonare a Bologna, sono andato al suo concerto e ci siamo conosciuti. E dalle parole siamo passati ai fatti.

In  “Mi  ami  davvero”  cantavi  “Mi  colpisci davvero, non  come  i  titoli  sensazionali  che trovi sui giornali”. Suggeriscilo tu allora un titolo per la nostra chiacchierata. Beh, mi sembra di aver dimostrato ampiamente con quest’album di non essere affatto un bravo titolista…

Francesco Gabriele       

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