Kasabian, quei brutti ceffi con l’anima psichedelica

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La consacrazione definitiva gliel’hanno data probabilmente gli Oasis sciogliendosi in una notte fonda agostana di due anni fa. Perché i Kasabian sin dall’anno di uscita del loro primo disco omonimo, nel 2004, si sono sempre portati appresso la fastidiosa etichetta di semplici (e sempliciotti) ragazzi rock della scena indie britannico, attaccatagli addosso dai soliti snob che circolano nei salotti buoni della musica contemporanea.

A essere onesti qualche attenuante ai detrattori gliel’hanno data anche loro. La band capitanata dal chitarrista Sergio Pizzorno (di origini liguri) è infatti approdata sulle scene in un momento in cui il rock sbiascicato e sgangherato dei fratelli Gallagher era giunto ai massimi livelli nel panorama musicale british e internazionale. E i Kasabian non hanno fatto altro che accodarsi, seguendo una scia comportamentale che li ha portati sui palchi di tutto il Regno Unito a scolarsi lager a rotta di collo tra un segno del dito medio alzato e un altro a mo’ di “v” rivolti ai pur poco gentili passanti di turno. Una sicurezza impavida e ostentata, la loro, che unita all’accento super marcato del Leicestershire del cantante Tom Meighan ha rafforzato ben oltre il dovuto la bistrattata immagine di band idolo della filiale dei teppisti inglesi del football. Eppure il gruppo del centro Inghiterra non era solo questo. Anzi, al di là delle facciate, non lo era neanche un po’. Non bisogna dimenticare infatti che il loro debutto, sette anni or sono, è stato assolutamente brillante e ha regalato al mondo intero un electro-rock alternative nuovo e allo stesso tempo retrò (scuola Stone Roses e Primal Scream). La dimostrazione tangibile a critici e scettici di turno di un’innata capacità di sperimentazione ben coniugata con un timbro melodico sempre riconoscibile anche a miglia di distanza.

Ora qualsiasi giustificazione ai loro atteggiamenti è ormai relegata alla voce “chiacchiere da bar”, perchè dopo i milioni di dischi venduti e davanti a un album come “Velociraptor!”, numero quattro in carriera, c’è ben poco da discutere e assai meno da sindacare. Il loro ultimo è un lavoro rock che si può definire 2.0: circolare e universale. Dentro “Velociraptor”, prodotto dal genio rap-funk Dan The Automator, si trovano il ritmo robotico e claustrofobico del kraut rock, gli anni Settanta con la loro psichedelia, il garage dei Novanta, lo stile british delle melodie accattivanti anche quando si fanno più aggressive e soprattutto una ricerca trasversale che attraversa, con maestosa facilità, generi opposti tra loro come il pop, l’elettronica e addirittura l’hip-hop. Uscito il 20 settembre scorso, il disco è balzato immediatamente al primo posto delle chart Uk, confermando tra l’altro e al di là di ogni pregiudizio che la band è in costante crescita di fiducia e ha davanti a sè un futuro ispiratissimo. E allora che si perdonino le uscite poco felici e strafottenti di un gruppo che strafottente lo è già nella scelta del nome: quel “Kasabian” che in lingua armena significa macellaio e che è stato preso in prestito da Linda Kasabian, membro della setta di Charles Manson (conosciuta anche come “The Manson Family”). D’altronde – oggi molto più di ieri – Pizzorno e soci possono pure permettersela un pò di autocelebrazione. I numeri infatti stanno tutti e solo con loro: concerti ovunque in Europa affollatissimi, singoli e dischi che non fanno in tempo a uscire che già sbancano il botteghino e la candidatura, sempre più caldeggiata dai più, a diventare la band brit-rock psichedelica di riferimento nel panorama mondiale.

Il concerto del 24 febbraio all’Atlantico, insieme a quello del giorno successivo a Padova, arriva quasi “sotto minaccia” dei fan, dopo il sold out registrato all’Alcatraz di Milano lo scorso novembre. La data della Madonnina, al tempo l’unica prevista in Italia, andò esaurita clamorosamente già parecchi mesi prima dell’evento, spingendo l’entourage del gruppo a implementare la road map tricolore del tour. Una forza incredibile, quella “live” dei Kasabian, che il pubblico italiano ha imparato a conoscere prima con i concerti datati 2007 di Milano, Bologna e Treviso (esauriti nche questi), poi con le esibizioni a supporto dei Muse (a San Siro davanti a 62mila persone) e degli U2 a Torino nel 2009. E infine, nel settembre scorso, in quel dell’I-day festival bolognese, quando i quattro del Leicestershire erano, con gli Arctic Monkeys, la band più attesa dagli oltre 12mila spettatori presenti. All’ex Palacisalfa il palco sarà però nuovamente soltanto per loro. E per la solita miriade di fan, si intende.

Francesco Gabriele

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