A due anni dalle vicende che lo avevano visto invocare il sussidio statale della Legge Bacchelli, complice una vita dissipata tra macchine sportive e belle donne, Franco Califano è tornato a calcare le scene, l’anno scorso con un recital all’Ambra Jovinelli e ora con una serata al Teatro Sistina il 20 febbraio.
Quando la Città Eterna si è svegliata imbiancata dalla neve nei giorni scorsi, il pensiero di molti è corso alla Roma “candida, tutta pulita e lucida” che Mia Martini cantava ne “La nevicata del '56”, uno dei suoi cavalli di battaglia scritto da Franco Califano. Un cantante e un personaggio scomodo, spesso al centro di aspre polemiche, che ha acquistato maggiore notorietà grazie agli omaggi di due campioni della comicità: Fiorello e Max Tortora. L’imitazione scanzonata di Fiorello ha esaltato il carattere “di pancia” delle sue canzoni d’amore, mentre Tortora (somigliantissimo) ha puntato sulla fama di latin lover romanaccio e sanguigno.
Fin dall’inizio della sua carriera, Califano ha affiancato alla canzone un genere tutto suo, fatto di monologhi cinicamente comici che mettono alla berlina vezzi piccolo-borghesi ai quali il Califfo (questo, insieme a Il Maestro, uno dei soprannomi più noti di Califano) contrappone l’insofferenza e il tedio “cosmico” che poi sfoceranno nel più tragico «tutto il resto è noia». Le smanie della villeggiatura della moglie che vuole portarselo a sciare per «La vacanza de fine settimana» si frantumano sui commenti mordaci del marito che a fine ballata sbotta in un volgare ma tutto sommato condivisibile invito a essere lasciato in pace. L’indifferenza moraviana, l’apatia tragica degli chansonniers d’oltralpe esplode nel suo brano più noto, quasi il simbolo della poetica di Califano. Dal 1977, anno d’uscita dell’album “Tutto il resto è noia”, il Califfo è l’interprete per eccellenza della tristezza di vivere, dell’incapacità di trarre soddisfazione dalla vita, corrotta dal ripetersi metodico, implacabile e sempre uguale di situazioni e sentimenti che non riescono a degenerare nella ribellione ma si smorzano nel tedio e nella stanchezza. Il dialetto romanesco è l’unico in grado di trasmettere la ruvidezza della poetica di Califano. Testi che spesso fanno sorridere, dalle rime un po’ ingenue e dalle metafore troppo caricate, ma che esprimono comunque una sincerità di sentimenti a tratti disarmante: Califano solo contro il mondo che rivendica di essere «gente de borgata» e canta per la sua indipendenza (“La mia libertà”). Amaro, ilare, eccessivo, agrodolce, tenero, Califano riesce con poche pennellate a restituire l’immediatezza di alcune situazioni sentimentali, nelle canzone che interpreta come in quelle che ha regalato negli anni ad altri cantanti. Per Bruno Martino scrive “E la chiamano estate”, per i Tiromancino “Un tempo piccolo”. Il playboy impenitente che ha scritto addirittura il “Calisutra”, quello distingue tra «fare l’amore» e «fare ro(b)ba», quello che si vanta di aver fatto l’amore «in piedi, in cinquecento, in ascensore» (“Pasquale l’infermiere”) e di aver iniziato la sua carriera di don Giovanni “de noantri” a dodici anni, è il medesimo autore di “Una ragione di più” interpretata da Ornella Vanoni.
L’esaltazione a volte esasperata della virilità del Califano interprete di sé stesso, a volta tanto esagerata da risultare comica al limite del macchiettismo, lascia il posto a una delicata introspezione dell’animo femminile per interpreti del calibro di Mina e Mia Martini. Se Parigi ha il suo Prévert, la Capitale ha nel Califfo il suo cantore: un paragone ormai ampiamente sfruttato e rilanciato. Franco Califano emblema di Roma? I più storcono il naso, minimizzano, sbuffano o ridono. Ma a ben guardare un po’ di vero c’è. L’atteggiamento un po’ sbruffone, il cinismo, la spavalderia tipica del romano da cartolina si annida nel Califfo e se c’è un lato del carattere romano che Califano riesce meglio ad esprimere è sicuramente quel misto tagliente ironia e tristezza che porta a guardare al mondo con disincanto e una punta di malinconia.
Chiara Cecchini