Mauro Gottardo, “La biro. O la fine del mondo”

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Vedendo una palla che, uscita da una pozzanghera, lasciava una scia sulla terra, nel 1938 il giornalista ungherese László József Bíró pensò che lo stesso principio avrebbe potuto valere anche con l'inchiostro. Diciassette anni più tardi, in un grande magazzino di New York, voilà ecco messa in vendita al prezzo record di 12 dollari e 50 la prima penna a sfera della storia. Un lusso per pochi – all’epoca lo stipendio medio di un americano era di circa 260 dollari – ma un’invenzione per tutto il mondo, da quel momento finalmente in grado di sognare una scrittura “trasportabile” e onnipresente, con tanti saluti al pur romantico calamaio. Oggi la più comune delle bic costa addirittura meno di un chilo di pane: è semplice, minimale e spartana nel suo essere funzionale. Ma soprattutto è comoda, comoda “da fare schifo”: la classica penna da battaglia. Eppure c’è un artista – decisamente sui generis – che la tratta come il migliore dei pennelli di Picasso, e la impugna per dare sfogo ai pensieri, per liberarsi dalle angosce, per lanciare messaggi provocatori e per urlare tutta la sua inquietudine. Costui è Mauro Gottardo, ospite da lunedì al Teatro Palladium con una personale già nel titolo emblematica: “La biro. O la fine del mondo”.

Narratore simbolico di un mondo ricco di riferimenti, tra icone, citazioni culturali e feticci, l’artista torinese realizza i suoi disegni su grande scala utilizzando semplicissime bic su rotoli di carta, questo perché, spiega lo stesso Gottardo, «mi consente di far circolare a vuoto immagini mancando le relazioni di profondità tra esse, isolando oppure reiterando una figura il rotolo si richiude su se stesso, un circuito paradossale dove tutto inizia dalla fine». Gottardo è un amanuense che da sempre produce, in assoluta solitudine, veri e propri cicli narrativi che hanno del medievale, e che come scrive di lui Alfredo Accatino, curatore della mostra, «sono costruiti sulla base di una progettualità visionaria che continua ad affinarsi mano a mano che il lavoro procede e che pretende anni di applicazione quasi monastica».

Le opere di Gottardo sono spiazzanti se si pensa come tanta meticolosità in fase di realizzazione venga supportata solo e soltanto dalla potenzialità del tratto di una penna a sfera. Anche se, a dire il vero, a scritte, didascalie e disegni il 40enne piemontese affianca libri, testi crittografati, aforismi, cifrari, schedari cellophanati, dossier in questa o in altre lingue, oltre a quelli che egli stesso definisce “scotchages”: nient’altro che collage fatti di pezzi di giornale presi e decontestualizzati e ricollocati sui rotoli di carta a creare un percorso narrativo differente. La forza originale dell’artista risiede nell’esigenza di creare una forma d’arte totale, nella quale i disegni e i collage risultino indissolubilmente uniti. Nessuna opera viene prodotta se non come parte del tutto. Quello di Mauro Gottardo è un mondo complesso, in continuo movimento, una fucina che incessantemente e meccanicamente costruisce universi moderni caratterizzati da svuotamenti semantici, una catena di montaggio che crea realtà assuefatte alla civiltà massificata e consumistica, una realtà fatta di immagini che ridono di noi, immagini che stordiscono ma che devono essere raccontate e tramandate come un’antica narrazione. 

Francesco Gabriele

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